“Legge 5 febbraio 1992, n. 104 e successive modificazioni ed integrazioni – permessi ex art. 33, comma 3.”
Si fa riferimento alla lettera n. 103430 del 10 dicembre 2007, con la quale codesta Università ha chiesto allo scrivente di far conoscere il proprio avviso in ordine all’interpretazione dell’art. 33 comma 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, in combinato disposto con l’art. 20 della legge 8 marzo 2000, n. 53, anche a seguito delle recenti circolari diramate dall’INPS. In particolare, la questione verte sull’interpretazione da dare ai requisiti della continuità e dell’esclusività dell’assistenza indicati nel menzionato art. 20.
L’art. 20 della citata l. n. 53 del 2000 ha esteso l’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione della norma contenuta nell’art. 33 comma 3 della l. n. 104 del 1992. Infatti, è stato specificato che le agevolazioni spettano “anche qualora l’altro genitore non ne abbia diritto” e i permessi sono stati estesi pure “ai famigliari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorché non convivente”. Pertanto, le agevolazioni sono ora previste – a prescindere dalla convivenza – in favore di quei famigliari che prestano assistenza con continuità e in via esclusiva alle persone con handicap grave.
L’art. 3 della legge quadro del 1992 (“soggetti aventi diritto”) contiene la definizione di “persona handicappata” e al comma 3 stabilisce che “qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”. La situazione di gravità dell’handicap viene accertata ai sensi dell’art. 4 comma 1 della medesima legge.
La situazione di gravità dell’handicap costituisce il presupposto a cui le norme subordinano il diritto del disabile ad usufruire delle particolari agevolazioni apprestate dal sistema.
Ciò posto, a parere dello scrivente, in linea con la ratio della disciplina, per il significato da attribuire al requisito della continuità occorre far riferimento proprio all’art. 3 comma 3 in questione. Infatti, è il legislatore che lega la situazione di gravità alla necessità di un intervento assistenziale “permanente, continuativo e globale”. L’accertamento descritto dal successivo art. 4, nel riconoscere alla situazione del soggetto disabile connotazione di gravità, attesta che questo necessita di un’assistenza che – tra gli altri – abbia il carattere della continuità, radicando così in capo al medesimo le agevolazioni e i benefici diretti e indiretti apprestati dal sistema.
Nella sentenza della Corte di Cassazione sez. lav. n. 8436 del 2003 si evidenzia che l’assistenza con continuità di persone portatrici di handicap, indica “che lo stato di handicap deve avere una consistenza e cioè una gravità tale da richiedere una forma di assistenza con siffatta modalità. È evidente, infatti, che non è il fatto dell’assistenza continuativa in sé che giustifica il beneficio, bensì la circostanza che tale assistenza si renda necessaria in ragione dello stato di handicap.”
In sostanza, la situazione di handicap grave, richiedendo per definizione l’assistenza continuativa, connota anche i caratteri di quest’ultima, in quanto “servente” i bisogni di una persona che per legge ha necessità di ausilio in via permanente.
Pertanto, ad avviso dello scrivente, la titolarità della legittimazione alla fruizione dei permessi in esame può essere rinvenuta soltanto in capo a quel lavoratore che effettivamente presti il suo ausilio non in maniera saltuaria od occasionale ma con assiduità e costanza, in modo tale da prestare un servizio adeguato e sistematico ossia regolare alla persona handicappata.
E’ evidente che l’assistenza di cui il portatore di handicap grave ha bisogno non si esaurisce nei limitati periodi coincidenti con le ore di permesso, ma l’ordinamento, come visto, nel quadro delle misure di sostegno, ha inteso consentire al lavoratore che presta tale ausilio di fruire di limitati congedi in modo da alleviare la preoccupazione del lavoratore stesso circa eventuali conseguenze negative connesse ad assenze dal servizio. In altre parole, la continuità dell’assistenza non costituisce la finalità del permesso, e tale non potrebbe essere data l’esigua consistenza degli stessi, pari a tre giorni al mese, ma ne costituisce, al contrario il presupposto di fatto legittimante; si tratta, pertanto, di un criterio sostanziale di scelta del congiunto lavoratore cui spettano i permessi, che va individuato in colui che sia in grado di assicurare (verosimilmente, che già assicuri) al disabile un’assistenza regolare, sistematica e costante al di fuori dell’orario di lavoro.
In base a quanto detto, la legittimazione alla fruizione dei permessi risulterà assente ogni qual volta la situazione oggettiva rappresentata dal dipendente all’amministrazione si manifesti inconciliabile con lo svolgimento di un’assistenza continuativa nel senso sopra inteso. Naturalmente, la situazione sarà valutata di volta in volta e a seconda delle circostanze concrete da parte dell’amministrazione interessata.
L’altro aspetto che connota l’assistenza in discorso è quello dell’esclusività.
In proposito, si ritiene che la circostanza che tra i parenti del disabile vi siano altri soggetti che possono prestare assistenza non esclude la fruizione dell’agevolazione da parte del lavoratore se questi non chiedono o fruiscono dei permessi (eventualmente perché non impiegati). In tale ottica si menziona l’orientamento della Corte di Cassazione, sez. lav., nella decisione 20 luglio 2004, n. 13481: “Si deve concludere che né la lettera, né la ratio della legge escludono il diritto ai permessi retribuiti in caso di presenza in famiglia di persona che possa provvedere all’assistenza”.
Tuttavia, a parere dello scrivente l’assistenza va intesa nel senso che il dipendente richiedente i permessi deve essere l’unico lavoratore (soggetto legittimato in base alla normativa specifica) che presta l’assistenza al soggetto disabile, vale a dire che non vi sono altri lavoratori prestanti assistenza che fruiscono di questi permessi per quel soggetto, in linea con l’avviso già espresso dall’INPS (circolare n. 133 del 17 luglio 2000) e dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale (prot. n. 25/I/0003003 del 28 agosto 2006).
V’è poi da aggiungere che, secondo un’interpretazione letterale dell’art. 20 della l. n. 53 del 2000, che, come detto, ha innovato la disciplina della l. n. 104 del 1992, non pare configurabile la cumulabilità da parte dello stesso lavoratore delle agevolazioni di cui al menzionato art. 33 comma 3 per assistere più persone disabili in stato di gravità esistenti nello stesso nucleo familiare. Ad avviso dello scrivente quindi i congedi possono essere fruiti in riferimento ad un’unica persona disabile. Infatti, visto il mutato quadro normativo, che ha allargato la titolarità della legittimazione considerando non più indispensabile la sussistenza della convivenza, si ritiene che l’interpretazione sopra prospettata sia più aderente alla ratio e allo spirito della legge.
Da quest’ultimo punto di vista non si vuole certamente escludere che un lavoratore possa/debba adoperarsi per prestare assistenza a più soggetti disabili, ma legare logicamente i due requisiti legali propri dell’assistenza, visto che un’assistenza resa con continuità è logicamente prestata in favore di una sola persona.
In conclusione, si ritiene che le amministrazioni, nell’ambito del quadro sopra delineato e nell’esercizio della propria discrezionalità datoriale, debbano individuare a seconda delle circostanze che si presentano i presupposti per la concessione dei permessi.
Al fine di evitare la compromissione del funzionamento dell’organizzazione, le amministrazioni dovrebbe concordare preventivamente con il lavoratore le giornate o le ore di permesso. A questo scopo può essere utile elaborare un piano per la fruizione dei permessi, che naturalmente è solo lo strumento formale dell’accordo lavorativo, il cui contenuto si può riempire sulla base della sussistenza del presupposto della legittimazione al congedo per il lavoratore.
Quanto agli strumenti per l’individuazione della legittimazione, ferme restando le certificazioni per l’attestazione dello stato di handicap grave, le amministrazioni potranno acquisire delle dichiarazioni sostitutive ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, salvi naturalmente i controlli del caso.
Si segnala, comunque, che sulle delicate e complesse questioni illustrate si è in attesa di una pronuncia da parte del Consiglio di Stato il quale è stato investito di apposita richiesta da parte del Ministro dell’economia e delle finanze.
IL DIRETTORE DELL’UFFICIO
Francesco Verbaro