Corte di cassazione, sezione lavoro, 22 febbraio 2003, n. 2763 (Pres. ed Est. Dell’Anno)
Rapporto di lavoro- mansioni e qualifiche- art. 2103 c.c.- diritto del lavoratore allo svolgimento effettivo della propria prestazione- sussistenza- conseguenze- negazione o impedimento allo svolgimento delle mansioni- diritto al risarcimento del danno professionale- sussistenza.
– art. 2103 c.c.
Dall’art. 2103 cod.civ. si desume che sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale. Tale danno (detto anche danno professionale) può assumere aspetti diversi in quanto può consistere sia nel danno patrimoniale derivante dall’impoverimento della capacita’ professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacita’, sia nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno sia in una lesione del diritto del lavoratore all’integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero all’immagine o alla vita di relazione. In particolare, la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa. (Nel caso di specie, in applicazione di questi principi, la Corte ha cassato la sentenza di merito che, pur avendo accertato la circostanza della “scarsissima attività o totale inattività” da parte del lavoratore, aveva tuttavia ritenuto che tale circostanza non poteva legittimare una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto).
Svolgimento del processo:
con ricorso al tribunale di Milano del 22 dicembre 1998, Z. S. espose che: a) la società B. I., alle dipendenze della quale prestava attività lavorativa quale dirigente, avendo costituito la società B. S. per la realizzazione di un programma di investimenti nelle regioni meridionali italiane, gli aveva proposto di assumere in questa le funzioni di vice direttore generale e che tale proposta era stata da lui accettata venendogli assicurato il rientro in posizione adeguata; b) dopo un iniziale periodo, emerse un graduale disimpegno della società B. I. nei confronti della attività della seconda e, a partire dal 1° giugno 1994, si operò una progressiva sua dequalificazione tanto che, pur èssendo stato nominato direttore generale, di fatto venne escluso dallo svolgimento delle mansioni primarie proprie di tale figura; e) con lettera del 22 febbraio 1995, gli venne comunicato dal Consiglio di amministrazione della società che era stata abolita la posizione di direttore generale e con altra del giorno successivo, la B. I. gli aveva proposto il rientro presso essa con le funzioni di responsabile del personale della direzione della assistenza tecnica; d) aveva svolto, a partire dal 1° aprile 1995, le inferiori mansioni fino a tutto l’anno successivo, restando inattivo per il periodo successivo fino alla data del 30 aprile 1998, in cui accettò la proposta di una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro. Ciò premesso, lo Z. convenne in giudizio la società B. I., chiedendone la condanna al risarcimento del danno morale, di immagine e biologico conseguente alla dequalificazione, all’indennità sostitutiva del preavviso e a quella supplementare con riferimento alle dimissioni – da qualificarsi come licenziamento – con successiva riassunzione, al risarcimento dei danni per mancata corresponsione degli incentivi e per la unilaterale riduzione delle ferie dall’anno 1996 in poi. Costituitosi il contraddittorio, il tribunale, in composizione monocratica, rigettò la domanda con pronuncia del 12 novembre 1999. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Milano ha ritenuto infondata l’impugnazione dello Z., rilevando che: 1) la pretesa di qualificare come licenziamento la risoluzione del rapporto con la società B. S. era ingiustificata, essendo incontestabilmente risultato che essa era conseguita a un concorde atto di volontà delle parti che manifestarono il loro reciproco consenso su tutti gli aspetti della questione, ivi compresi quelli di natura economica venendo riconosciute al dipendente particolari e cospicue indennità, a nulla rilevando che la relativa lettera non fosse stata formalmente sottoscritta dallo Z. ed essendo rimaste totalmente indimostrate le affermazioni dello stesso circa una violenza morale su lui esercitata, smentite del resto dalla condizione del rientro presso la società capo-gruppo all’atto della accettatone della proposta del passaggio alla società controllata;
2) era da escludersi la sussistenza della asserita dequalificazione per il periodo trascorso presso la società B. S., mai essendo stato utilizzato lo Z. in mansioni non proprie di un dirigente;
3) il nuovo rapporto con la società B. I. trovava la sua origine non nel contratto con la società B. S., ma nell’atto di assunzione del 27 marzo 1995 da parte della prima nel quale erano assenti specifiche pattuizioni, dovendo la società esclusivamente rispettare l’impegno di “assicurare allo Z. (come dallo stesso, del resto, sostenuto) una posizione adeguata al background professionale maturato”, il che significava solo che dovesse essere assunto con qualifica dirigenziale, come era avvenuto, e non per ricoprire la stessa posizione precedente;
4) se era vero che per l’ultimo periodo di sedici mesi il dipendente restò privo di mansioni e quindi inattivo, tuttavia il fatto, pur avendo potuto provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva essere configurato come presupposto per una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto, non essendo neanche stato prospettato che, per effetto di ciò, allo stesso si rese impossibile un avanzamento di carriera nella azienda o che si fossero ricercate altre scelte di inserimento professionale che vennero ostacolate da una presunta intervenuta diminuzione della attività lavorativa;
5} quanto agli incentivi, era risultata provata la loro natura eventuale e discrezionale, mentre, con riferimento alla indennità sostitutiva di ferie non godute, essa non può ritenersi dovuta a un dirigente che, per sua stessa scelta – come nella specie – rinunci al riposo annuale. Della decisione viene chiesta la cassazione dallo Z. con ricorso sostenuto da tre motivi e illustrato con memoria. La società intimata resiste con controricorso.
Motivi della decisione:
Con il primo motivo – denunciando violazione e falsa applicazione degli articoli 2118, 2119, 2697 e 1362 del codice civile, omessa, insufficiente, e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – il ricorrente deduce che erroneamente la Corte di appello di Milano ha ritenuto che non dovesse qualificarsi come licenziamento l’allontanamento dello Z. dalla società B. S., limitandosi a osservare che, formalmente, dalla lettera del 27 marzo 1995 (non sottoscritta dal dipendente), con la quale si comunicava la risoluzione del rapporto, si evinceva che questa era dovuta a una concorde volontà delle parti, e ciò in contrasto con la tesi difensiva di un recesso unilaterale da parte dell’impresa, non confortata da alcun elemento probatorio. Secondo il ricorrente, il giudice di merito avrebbe totalmente trascurato di valutare le circostanze, non contestate dalla controparte, che
in senso opposto inequivocabilmente deponevano, in quanto dimostravano che il protrarsi della sua presenza presso la società costituiva un ostacolo al realizzarsi dell’intendimento dei responsabili della capo-gruppo all’affidamento delle responsabilità della conduzione della azienda ad altre persone di maggiore gradimento e che la adesione alla proposta, di una risoluzione consensuale era stata imposta – e necessitatamente subita – quale unica alternativa al licenziamento. In una tale situazione, avendo lo Z. fornito la prova della sua estromissione dal rapporto, incombeva sul datore di lavoro l’onere di dimostrare che questa non era dovuta all’allegato licenziamento ma era stata-la conseguenza di una consensuale risoluzione dello stesso.
La censura è infondata. E invero, la Corte di appello, con argomentazioni logicamente e giuridicamente corrette, ha fornito ragione del perché dovesse ritenersi per provato che nella specie la cessazione del rapporto tra lo Z. e la società B. S. si pose come fatto terminale, e ampiamente previsto, di un complesso regolamento negoziale che ebbe il suo avvio sin nel momento in cui il primo accettò di transitare nella seconda alla condizione di un suo rientro presso la B. I., il che puntualmente si verifica contestualmente alla sua uscita dalla B. S., venendo concordato il riconoscimento di “particolari e cospicue indennità”. D’altra parte, a fronte delle prove documentali attestanti una consensuale risoluzione del rapporto, il ricorrente si limita ad opporre una diversa ricostruzione della vicenda affidata esclusivamente ad affermazioni svolte in maniera totalmente assertoria.
Con il secondo e articolato motivo, lo Z. lamenta violazione e falsa applicazione degli articoli 2103, 1218, 1226 e 2043 del codice civile nonché vizi della motivazione nelle parti in cui il giudice del merito ha ritenuto che non potesse trovare accoglimento la domanda, di risarcimento dei danni causatigli dal demansionamento delle funzioni di dirigente pervicacemente operato a suo carico nel corso della attività prestata sia presso la B. S. che presso la B. I. nel periodo successivo al suo rientro in questa, nel corso del quale restò totalmente inattivo per tutti i sedici mesi antecedenti alle dimissioni finali.
La censura è fondata con riferimento solo a quest’ultima parte per la quale le ragioni, che hanno indotto la Corte di appello di Milano al rigetto della richiesta di risarcimento dei danni subiti dallo Z. a causa della mancanza di attività alla quale il datore di lavoro (avrebbe dovuto assegnar)lo, appaiono insufficienti dal punto di vista sia logico che giuridico. Va infatti osservato che il giudice di merito, pur avendo dato atto che la circostanza della “scarsissima attività o totale inattività” da parte dello Z. per l’intero periodo di cui sopra era rimasta non solo incontestabilmente provata ma anche “lealmente ammessa” dalla stessa società, ha tuttavia ritenuto che essa, pur avendo potuto provocare un certo disagio e disadattamento, non poteva legittimare una condanna al risarcimento di danni da dequalificazione, non avendo comportato una decurtazione della retribuzione né una diminuzione delle attitudini lavorative del soggetto, per non essere risultato che, per effetto di ciò, allo stesso si rese impossibile un avanzamento di carriera nella azienda o che altre scelte di un diverso inserimento professionale fossero state ostacolate da una intervenuta diminuzione delle attitudini lavorative.
Così argomentando, il giudice del merito ha ignorato i principi costantemente affermati da questa Corte, che ha ripetutamente avuto modo di sottolineare che dall’articolo 2103 del codice civile si desume che sussiste il diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione professionale e che la lesione di tale diritto da parte del datore di lavoro costituisce inadempimento contrattuale e determina, oltre all’obbligo di corrispondere le retribuzioni dovute, l’obbligo del risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che può assumere aspetti diversi in quanto può consistere non solo nel danno patrimoniale derivante dall’ impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità o nel pregiudizio subito per perdita di chance ossia di ulteriori possibilità di guadagno, ma anche – e tali aspetti, nella specie, sono stati completamente trascurati – in una lesione del diritto del lavoratore alla integrità fisica o, più in generale, alla salute ovvero alla immagine o alla vita di relazione (per tutte, Cass., 14 novembre 2001, n. 14199). Più in particolare ancora, occorre ribadire che la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni, al pari del demansionamento professionale, ridondano in lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore anche nel luogo di lavoro, determinando un pregiudizio che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione anche in via equitativa (Cass. 2 gennaio 2002, n. 10).
Entro questi limiti il motivo di ricorso appare fondato, sicché si impone un nuovo esame della questione, nel rispetto dei principi sopra enunciati, da parte del giudice di rinvio che accerterà anche se l’infarto subito dallo Z. debba porsi in relazione causale con l’inadempimento contrattuale del datore di lavoro, ampiamente dimostrato.
Lo stesso motivo è invece manifestamente infondato per quanto attiene alle censura nei confronti della motivazione della sentenza per la parte nella quale il giudice di merito ha ritenuto che dovesse escludersi il denunciato demansionamento durante il periodo in cui la attività lavorativa venne prestata. E invero, a questo proposito sembra sufficiente osservare che lo stesso ricorrente non lamenta che in punto di fatto egli sarebbe state adibito a mansioni non dirigenziali e diverse da quelle appartenenti a un dirigente dal ruolo formalmente attribuitogli negli organigrammi aziendali, esaurendosi invece a dolersi del fatto che non tutte tali funzioni sarebbero state da lui esplicate essendo state talune di esse assegnate ad altre persone, nel che peraltro, con tutta evidenza, non può, in punto di fatto, configurarsi ipotesi di demansionamento, appartenendo alla discrezione dell’imprenditore la possibilità di assegnare a più preposti le responsabilità che pure, nella prassi, sono affidate a un unico incaricato.
Con il terzo motivo, vengono denunciate violazione e falsa applicazione dell’articolo 2897 del codice civile, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia per la parte in cui si è rigettata la domanda alla indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Il rilievo è fondato, dovendo rilevarsi che – se è vero che, come si legge nella sentenza impugnata, il dirigente, che, per propria libera scelta, rinunci autonomamente a giovare dei giorni previsti contrattualmente per il riposo, non ha diritto a corrispettivi economici sostitutivi – pur tuttavia la indennità in questione spetta anche al dirigente che fornisca la prova che furono obiettive necessità aziendali a ostare alla fruizione delle ferie (Cass. 27 agosto 1996, n, 7883). Orbene, a tale fine sarebbe stato necessario esaminare se, almeno per il periodo cui fa riferimento la lettera del 9 marzo 1994 a firma di tale Baggiani, che nel motivo è trascritta, l’eventuale (circostanza da accertarsi in punto di fatto) mancato godimento di giorni di ferie dipese non da scelta dello Z. ma da necessità di adeguarsi alle direttive dell’imprenditore.
Limitatamente quindi ai due punti sopra indicati (domanda di risarcimento dei danni da inattività forzata e di indennità sostitutiva delle ferie per il periodo interessato dal documento citata) si impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice che si designa, nella corte dì appello di Brescia, alla quale si demanda di provvedere sulle spese dell’intero processo.
P. Q. M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso e accoglie, per quanto di ragione, il secondo e il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Brescia.