Licenziamento, mobbing, condotta vessatoria, sussistenza

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Sentenza 20 marzo 2009, n. 6907

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso 10789/2006 proposto da ****

– ricorrente

– contro

– controricorrente

– avverso la sentenza n. 177/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/04/2005 R.G.N. 01/04; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/01/2009 dal Consigliere Dott. STEFANO MONACI;

udito l’Avvocato A. per delega L.;

udito l’Avvocato DI M. per delega D’A.

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RICCARDO FUZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La signora **** ha convenuto in giudizio la società **** della quale era stata dipendente in qualità di impiegata, impugnando una serie di provvedimenti disciplinari, e, soprattutto, il licenziamento che le era stato intimato.

La lavoratrice esponeva, in particolare: di essere stata assunta dal marzo 1987 ed addetta ad una serie di mansioni varie come la reception, il centralino, la gestione dei cartellini, l’elaborazione delle agende; di non avere provvedimenti disciplinari fino al gennaio 1999; che appunto all’inizio del 1999 la responsabile della sua attività le aveva consigliato di trovarsi un nuovo lavoro in un’altra azienda, perché la società non era più soddisfatta delle sue prestazioni; che nei mesi dall’aprile all’agosto 1999 era stata sottoposta a sette provvedimenti disciplinari di cui sei per un giorno di sospensione ciascuno ed uno per una multa di tre ore, per addebiti che secondo l’interessata erano insussistenti, oppure tardivi, oppure ancora privi di rilevanza disciplinare; di essere stata licenziata il 15 settembre 1999 sempre per fatti a suo parere non sussistenti. Sosteneva che si era trattato di un episodio di mobbing. Chiedeva perciò che una serie di sanzioni disciplinari, così come lo stesso licenziamento, fossero dichiarati, nulli, illegittimi ed inefficaci, che la convenuta fosse condannata a riassumere la dipendente, oppure a risarcirle il danno nella
misura di legge, e, inoltre, che il giudice accertasse il carattere di mobbing e perciò l’illegittimità dei comportamenti posti in essere dalla dal gennaio al settembre 1999, accertando anche che avevano provocato alla ricorrente un danno biologico, con condanna della società al relativo risarcimento.

Costituitosi il contraddittorio ed istruita la controversia il giudice di primo grado accoglieva la domanda, sia pure riconoscendo il danno da mobbing soltanto nella somma di € 9.500,00, sensibilmente inferiore a quelle richieste. Questa pronunzia veniva integralmente confermata dalla Corte d’Appello di Milano con sentenza n.177, in data 12 gennaio / 4 aprile 2005, che respingeva l’impugnazione della società.

La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado anche nella motivazione, e riteneva, in sintesi che due delle sanzioni disciplinari, impugnate dinanzi al collegio arbitrale, fossero già state derubricate in semplici multe con accettazione delle parti, e che anche la loro rilevanza ai fini della recidiva andasse ridotta in relazione alla minor entità della sanzione; che un’altra sanzione fosse tardiva; che le altre sanzioni fossero illegittime, per irrilevanza e/o insussistenza degli addebiti contestati, o per la sproporzione di essi; che effettivamente il clima aziendale nei confronti della signora **** fosse pesante, dato che i rimproveri orali da parte dei superiori venivano effettuati adottando toni pesanti ed in modo tale che potesse essere uditi dagli altri colleghi di lavoro; che sussistesse una sproporzione evidente tra il provvedimento di licenziamento ed i tre lievi addebiti riportati nella relativa contestazione, e che non si poteva tener conto, ai fini della recidiva, delle sanzioni disciplinari irrogate in precedenza proprio perché nulle e/o illegittime; che, tenuto conto anche dei richiami e dei rimproveri continui della sua dirigente nei confronti della lavoratrice, si fosse verificata effettivamente un episodio di mobbing; che, come era risultato dalla consulenza medica, effettivamente questo mobbing avesse avuto ripercussioni nelle condizioni delle signora e comportato un danno biologico, sia pure modesto, da quantificare nella “misura percentuale del 6%. Avverso la sentenza di appello, che non risulta notificata, la società **** proponeva ricorso per cassazione, articolato su quattro motivi di impugnazione, notificato, in termini, il 30 marzo 2006.

Resisteva l’intimata signora **** resisteva con controricorso notificato, in termine, il 9 maggio 2006.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Nel primo motivo, relativo ad alcuni dei provvedimenti disciplinari in contestazione, la società denunzia l’errore di diritto in relazione agli artt. 2104, 2105, 2106, e 1453 e segg. c.c, nonché l’omessa e comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia.

Sostiene, in particolare, che la signora non aveva eseguito con diligenza le prestazioni che le erano affidate, con conseguente violazione delle disposizioni degli artt. 2104 e 2105, e che, ai sensi dell’art. 2106, queste violazioni potevano dare luogo all’applicazione di provvedimenti disciplinari. Nega che gli inadempimenti della dipendenti fossero lievi, o di scarsa importanza, e che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i provvedimenti. Nega ancora che l’interessata fosse oberata da una mole eccessiva di lavoro. Sottolinea anche le mancanze e gli errori cui si riferivano le sanzioni che erano state derubricate in sede conciliativa rimanevano comunque tali, e che tutte le mancanze e gli errori comportavano inadempimenti contrattuali.

2. Nel secondo motivo di impugnazione, relativo al licenziamento, la ricorrente denunzia l’errore di diritto per travisamento dei fatti, e l’omessa o comunque insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Sottolinea l’Importanza delle tre mancanze poste a base del recesso (per l’esattezza, l’errata compilazione del prospetto trimestrale delle presenze e delle assenze di un dipendente, l’errato aggiornamento dell’agenda aziendale, l’errata distribuzione della posta) e ribadisce che potevano essere poste alla base del recesso.

Allo stesso modo sussistevano effettivamente gli addebiti cui si riferivano i precedenti provvedimenti disciplinari, e la ricorrente ne sottolinea la rilevanza, perché confermavano la negligenza e lo scarso impegno della lavoratrice. In ogni caso il licenziamento, anche se, in ipotesi, non fosse stato giustificato per giusta causa, avrebbe potuto esserio per giustificalo motivò soggettivo.

3. Nel terzo motivo di impugnazione, dedicato al mobbing, la ricorrente denunzia il travisamento dei fatti e l’omessa e comunque insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Nega ancora una volta che i provvedimenti disciplinari irrogati fossero illegittimi, e che sussistessero le vessazioni e le aggressioni verbali lamentate dalla lavoratrice, che quest’ultima fosse stata sottoposta a controlli esasperati.

4. Con il quarto ed ultimo motivo, relativo specificamente al danno da mobbing, alla consulenza tecnica di ufficio e al danno biologico, la società denunzia l’insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Secondo la ricorrente la consulenza di ufficio avrebbe accertato che nella signora non vi era stata e non vi era alcuna malattia in atto, ma soltanto disturbi dell’adattamento, che erano temporanei e transeunti.

La ricorrente contesta le conclusioni del consulente d’ufficio, e lamenta che la sentenza di primo grado non aveva tenuto conto delle note critiche del proprio consulente di parte. Nega si fosse verificata l’invalidità temporanea liquidata dal consulente di ufficio, come pure la sussistenza di un danno esistenziale.

5. Il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento.

Nella gran parte i motivi di impugnazione sono sostanzialmente inammissibili, perché si limitano, in realtà, a riproporre questioni di mero fatto, relative alla valutazione del comportamento della signora nello svolgimento della propria attività di lavoro, ma queste valutazioni, proprio perché tali non possono essere oggetto di un ulteriore riesame in questa sede di legittimità. Vale la pena di sottolineare in proposito che i fatti in se stessi appaiono chiari, e sostanzialmente – almeno nelle loro linee generali – non contestati dalle parti. L’oggetto della discussione, invece, è costituito appunto dalla valutazione e dall’interpretazione di questi fatti, mentre non sussistono i vari profili denunziati di difetto di motivazione, in realtà la motivazione esposta dalla sentenza della Corte d’Appello di Milano, nei suoi vari aspetti, chiarisce in maniera ampia, precisa, puntuale, e del tutto logica e convincente, le ragioni per le quali ha compiuto quelle valutazioni ed è giunta a quella decisione, né le sue valutazioni appaiono scalfite dalle argomentazioni della società ricorrente.

Queste considerazioni appaiono adeguate e sufficienti a dimostrare l’inammissibilità di una parte delle argomentazioni contenute nel primo motivo del ricorso, quelle sul fatto che l’interessata non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di lavoro (mole che, peraltro, – dato che quelle affidate alla resistente erano per lo più attività non suscettibili di rinvio – dovrebbe eventualmente essere valutata non in via generale, ma con riferimento alle specifiche evenienze occorse nelle singole giornate cui riferivano gli addebiti), e quella che sussistesse una sproporzione tra gli addebiti e per intero le argomentazioni contenute negli altri motivi di impugnazione, il secondo, il terzo ed il quarto.

Con particolare riferimento al secondo motivo rimane da osservare, per completezza, che è inevitabilmente diverso il livello della diligenza ritenuta necessaria da un datore di lavoro (creditore della prestazione), e perciò delle mancanze che possono giustificare dei provvedimenti punitivi, ed il livello invece ritenuto necessario dal prestatore (debitore della prestazione).

Una valutare oggettiva non può che essere lasciata necessariamente ad un terzo, in concreto il giudice del merito; in sostanza la società pretende invece, inammissibilmente, di sovrapporre la propria valutazione, inevitabilmente soggettiva a quella della Corte d’Appello: questo vale, ad esempio, la dove riafferma che la resistente non sarebbe stata oberata da una mole eccessiva di lavoro, ma anche, soprattutto, quando i provvedimenti adottati fossero sproporzionati rispetto all’effettiva entità dei fatti contestati.
Considerazioni analoghe valgono per la valutazione dell’esistenza di un fenomeno di mobbing, di cui al terzo motivo di ricorso, e per quella delle conseguenze psicofisiche e del danno che ne è derivato, che sono oggetto, invece, del quarto motivo.

6. Va esaminato separatamente, per completezza, il primo argomento contenuto del primo motivo, quello sulla legittimità delle sanzioni.

La società ricorrente sostiene che sussistevano i presupposti legati per l’applicazione dei provvedimenti disciplinari contestati e contesta in particolare che vi fosse una sproporzione tra gli addebiti ed i provvedimenti adottati. La prima osservazione da un lato è inammissibile e dall’altro è inconferente.

Come risulta dalla lettura dello stesso ricorso (che, per la verità, è assai chiaro e dettagliato) la maggior parte gli addebiti contestati concerneva ipotesi di svolgimento delle proprie mansioni con insufficiente diligenza, che investono -piuttosto che fatti disciplinari in senso proprio, che presuppongano un comportamento in qualche misura volontario semplici difficoltà operative, una minore capacità di esecuzione delle mansioni stesse. Se si tolgono i semplici fatti di mancanza di diligenza, tra quanto prospettato a giustificazione degli addebiti rimane, per la verità, soltanto una quota modesta di fatti che possono essere considerati volontari (l’utilizzazione non autorizzata del fax aziendale per la trasmissione di corrispondenza propria, le accuse ai superiori di manomissione del proprio cartellino presenze).

La ricorrente ricorda che l’art. 2106 c. c., sulle sanzioni disciplinari, rimanda ai due articoli precedenti, e che l’art. 2104 prescrive l’obbligo del lavoratore di eseguire le proprie mansioni con la necessaria diligenza. Per la verità il richiamo generico contenuto nell’art. 2106, sulla possibilità di irrogare sanzioni disciplinari sembra riferirsi a fatti di inadempimento volontario previsti nell’art. 2105 e nel secondo comma dell’art. 2104, piuttosto che alla semplice, e generica, carenza di diligenza contemplata nel primo comma. In una organizzazione negoziale basata sulla contrattazione collettiva, l’individuazione degli indebiti che possono essere oggetto di sanzione è demandata appunto alla contrattazione collettiva.

La ricorrente non precisa dove il contratto collettivo di settore preveda la possibilità di applicare sanzioni disciplinari per i diversi fatti contestati, mentre la valutazione della loro gravità in concreto riporta ancora una volta ad una analisi di fatto e perciò ad un ambito non più suscettibile di riesame in questa sede.

7. Ma, anche astraendo da questo, in ogni caso la censura è inconferente. Anche ammettendo, in via di ipotesi non concessa, che in quelle circostanze sussistesse, sotto il profilo strettamente
formale, la possibilità di irrogare dei provvedimenti disciplinari, quelle specifiche sanzioni adottate in concreto sono stati annullate in giudizio (così come lo è stato il licenziamento che ne era stato il completamento), perché – secondo la tesi accolta dai giudici di primo e di secondo grado – erano state irrogate all’interno di un comportamento complessivo di mobbing, anche quando altrimenti non lo sarebbero state se non fosse sussistita una specifica volontà di colpire la… omissis … per indurla alle dimissioni, e/o per precostituire una base per disporre il suo licenziamento (come poi effettivamente è avvenuto). La sentenza impugnata, in realtà, non si basa tanto sulla motivazione che le sanzioni fossero illegittime (o che lo fossero una parte di esse), quanto su quella che fossero eccessive e che, in realtà, fossero state irrogate per ragioni strumentali ed in maniera sostanzialmente pretestuosa, amplificando l’importanza attribuita a fatti di modesta rilevanza, in sostanza che i provvedimenti non sarebbero stati adottati, e non sarebbero stati adottati tutti ed in un così breve periodo di tempo, se non fosse sussistita una precisa volontà di colpire la lavoratrice.

Le stesse considerazioni valgono, del resto, per il licenziamento che si è basato anche sulle precedenti sanzioni, e che – sempre secondo la ricostruzione dei giudici di merito – ha concluso l’operazione di mobbing.

8. Concludendo, dunque, il ricorso non è fondato e non può trovare accoglimento.
Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate nella misura riportata nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese che liquida in Euro 29,00, oltre ad Euro 3.000,00 (tremila/00) per onorari oltre spese generali Iva e CPA.

Depositata in Cancelleria il 20.03.2009

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