Mobbing: divieto e tutela nella normativa per la sicurezza del lavoro

Sommario:

1. La diffusione del fenomeno mobbing nella realtà sociale.

2. L’ordinamento giuridico e il fenomeno mobbing.

3. Una definizione giuridica di mobbing.

4. Gli strumenti del diritto civile e del diritto penale.

5. Il mobbing e la legislazione per la sicurezza del lavoro.

6. L’analisi delle pertinenti disposizioni del d.lg. n. 626/94. Le misure generali di tutela.

7. Gli obblighi di carattere generale.

8. Le figure soggettive coinvolte nella prevenzione del mobbing.

9. Le conseguenze dell’azione mobbizzante: la malattia nella mente quale lesione penalmente rilevante.

 


1. La diffusione del fenomeno mobbing nella realtà sociale. – È noto come l’interesse, della psicologia e della sociologia, per le vicende caratterizzate da condotte vessatorie praticate e subite nell’ambito del rapporto di lavoro e da conseguenti ripercussioni sulla psiche della vittima sia andato rapidamente incrementandosi nel corso degli anni più recenti, tanto che risulta ormai di dominio pubblico il termine “mobbing”, utilizzato per indicare in modo sintetico vicende di tal genere. Basta dunque ricordare che con il termine in questione si intende, ormai anche nel linguaggio comune, l’insieme delle azioni vessatorie poste in essere in modo sistematico nell’ambito del rapporto di lavoro (anche se in realtà il medesimo termine può essere utilizzato per indicare anche condotte analoghe poste in essere in altri contesti) ad opera o del datore di lavoro o di dirigenti o anche di altri colleghi, nei confronti di uno o più lavoratori, azioni in grado di ledere l’equilibrio psicofisico dei soggetti danneggiati e da costringerli, in taluni casi, a lasciare il lavoro.
Il sempre maggiore rilievo sociologico del fenomeno ha necessariamente destato anche l’interesse degli operatori del diritto, sia sotto un profilo meramente teorico, volto ad operare un inquadramento del fenomeno mobbing nell’ambito del sistema normativo vigente, sia, soprattutto, sotto un profilo più pratico, volto ad individuare, all’interno dell’ordinamento giuridico, gli strumenti di tutela pertinenti ed adeguati per fronteggiare il fenomeno stesso e per fornire adeguato ristoro ai soggetti lesi. La rilevanza sociale del fenomeno si è venuta peraltro incrementando in epoca troppo recente perché il nostro legislatore, che tradizionalmente fatica a tener dietro in modo sollecito all’evolversi della realtà sociale, potesse dettare una disciplina adeguata e compiuta in proposito o, quanto meno, potesse considerare espressamente ed unitariamente il fenomeno in questione almeno nel quadro delle disposizioni emanate per regolamentare i diversi aspetti del rapporto di lavoro.

Il legislatore più tempestivo è stato quello della Regione Lazio, ma la legge regionale 11 luglio 2002, n. 16, in tema di mobbing sui luoghi di lavoro, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte, con la sentenza 11 luglio 2003, n. 233, in quanto ritenuta invasiva di competenze statali in materia di ordinamento civile, regolamentazione dei pubblici uffici, tutela della salute e della sicurezza del lavoro. Le due leggi regionali di recente emanate (la n. 18 del 28 febbraio 2005 della Regione Umbria e la n. 66 del 22 marzo 2005 della Regione Friuli Venezia Giulia) hanno assunto, per restare in linea con i rilievi della Corte costituzionale, una portata molto più circoscritta rispetto alla legge del Lazio, e si propongono, nella sostanza, soltanto obiettivi di studio, informazione, formazione e assistenza in ordine al fenomeno mobbing nei luoghi di lavoro.

2. L’ordinamento giuridico e il fenomeno mobbing. – Esistono, è vero, diversi disegni e proposte di legge in argomento (disegni che risultano, al momento in cui si scrivono queste note, unificati in uno schema presentato al Senato il 2 febbraio 2005) ma in attesa che essi trovino attuazione nell’emanazione di disposizioni normative specifiche, è necessario prendere in considerazione le disposizioni vigenti, allo scopo di accertare quali e quante possano concretamente trovare applicazione nelle fattispecie tradizionalmente riconducibili al concetto di mobbing. La disamina così compiuta non è certo tale da far concludere nel senso dell’irrilevanza del fenomeno mobbing per il nostro ordinamento, né, tanto meno, nel senso della mancanza di un’adeguata ed efficace tutela per il soggetto mobbizzato e, per contro, di sanzioni apprezzabili per coloro cui sono imputabili le azioni mobbizzanti. Al contrario, l’analisi accorta delle disposizioni vigenti consente senza dubbio di affermare che, pur senza alcuna esplicita menzione del termine mobbing, le condotte che tradizionalmente vengono inquadrate in tale fenomeno trovano, nella sostanza, tutte adeguata considerazione, in modo diretto o alla stregua di una interpretazione estensiva, negli istituti giuridici già in essere e, conseguentemente, che le norme vigenti hanno contenuto tale da configurare strumenti di tutela sufficientemente adeguati per coloro che siano stati fatti oggetto di condotte illecite, comunque riconducibili al fenomeno mobbing.
Ciò, soprattutto, con riguardo proprio alla regolamentazione del rapporto di lavoro, in seno alla quale sono evidenziabili previsioni specifiche certamente applicabili a condotte tipicamente riconducibili al fenomeno mobbing e tutte caratterizzate dalla produzione di disagi ed effetti nocivi sull’integrità fisica e psichica del lavoratore. Del resto, anche la, sempre più ampia, elaborazione giurisprudenziale in argomento, pur facendo riferimento alle definizioni del mobbing elaborate in campo scientifico, è poi ricorsa agli strumenti di valutazione e tutela già delineati dal nostro ordinamento (ed in particolare dal codice civile) per risolvere le fattispecie sottoposte al suo esame, specificamente per quanto concerne l’approntamento di idonea tutela per il lavoratore danneggiato.

3. Una definizione giuridica di mobbing. – In via generale deve però osservarsi come sia preliminare all’individuazione della normativa applicabile una corretta puntualizzazione degli elementi tipici del mobbing che vengono in rilievo sotto il profilo giuridico. Non è questa la sede per occuparsi diffusamente del tema, per cui basta riassuntivamente indicare che, alla stregua dell’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in argomento, gli elementi essenziali che è indispensabile riscontrare per poter ricondurre al mobbing condotte altrimenti valutabili in modo diverso ed autonomo (e per potere, per altro verso, evitare, di estendere il concetto a fenomeni di fisiologica conflittualità sul mondo del lavoro) sono quelli dell’intenzionalità delle condotte stesse, della finalizzazione delle condotte a produrre pregiudizi all’integrità psico-fisica del destinatario, anche attraverso l’emarginazione dello stesso, e della sistematicità delle condotte. Nella maggior parte dei casi a tali condotte conseguono ripercussioni lesive per l’integrità psicofisica della vittima, ma è indubbio che la considerazione giuridica deve estendersi anche a quelle fattispecie in cui tali conseguenze non si siano ancora verificate o, eventualmente, non si verifichino a causa della capacità di reazione della vittima stessa.

4. Gli strumenti del diritto civile e del diritto penale. – Così inquadrata la problematica per quanto di interesse per gli operatori del diritto, va ora rilevato che norme specifiche, certamente applicabili al fenomeno mobbing, sono innanzi tutto rinvenibili nell’ambito del diritto civile, con riguardo alla disciplina del rapporto di lavoro; sono, infatti, essenzialmente le norme di cui agli artt. 2087 e 2103 del codice civile quelle di cui la giurisprudenza ha fatto applicazione nell’ambito dei giudizi nei quali sono state prospettate condotte riconducibili al fenomeno in questione. Certamente pertinente anche al fenomeno in questione è poi la disciplina di recente emanata, sulla scorta delle direttive comunitarie, in tema di tutela contro i comportamenti discriminatori.
Ma disposizioni pertinenti sono poi rinvenibili, con riferimento al profilo sanzionatorio della condotte mobbizzanti, nell’ambito dello stesso diritto penale, dal momento che è possibile ricomprendere le condotte vessatorie ed aggressive che caratterizzano il fenomeno in questione nell’ambito di specifiche fattispecie di reato (ingiurie, diffamazione, minacce, violenza privata, maltrattamenti, lesioni, abuso d’ufficio, molestie, ecc.).

5. Il mobbing e la legislazione per la sicurezza del lavoro. – È però senz’altro ravvisabile, sotto il profilo giuridico, anche nella legislazione speciale in materia di sicurezza del lavoro, un insieme di principi da cui trarre ulteriore fondamento al divieto di porre in essere condotte mobbizzanti; ciò con riferimento, ovviamente, a quelle forme di mobbing che si attuino nell’ambito dello svolgimento del rapporto di lavoro.
Un’espressa conferma al riguardo viene anche dalla risoluzione 283/2001 del Parlamento europeo, la quale, nel segnalare l’estrema diffusione del fenomeno mobbing sul posto di lavoro e la conseguente necessità, per gli Stati membri dell’unione, di adeguare la propria legislazione alla considerazione del fenomeno stesso, esorta la Commissione europea, nella prospettiva di adottare iniziative comuni a livello europeo, a valutare la possibilità di estendere il campo di applicazione della direttiva quadro per la salute e la sicurezza del lavoro, ovvero di elaborare una nuova direttiva quadro, che valga ad affrontare in modo sistematico e con l’adozione di misure preventive la problematica inerente il miglioramento dell’ambiente di lavoro.

È innegabile che la più recente evoluzione della normativa del nostro paese in tema di sicurezza del lavoro consente di operare una lettura delle disposizioni di carattere generale che sia in grado di individuare anche all’interno delle stesse il divieto di compimento di azioni lesive dell’integrità psicofisica del lavoratore e dunque il divieto di azioni riconducibili al concetto di mobbing.
Naturalmente la violazione delle disposizioni delle leggi speciali poste a tutela della sicurezza del lavoro rileva anche sotto il profilo civilistico, in quanto dà luogo sia ad una responsabilità di tipo extracontrattuale in capo all’autore della violazione che ad una responsabilità contrattuale in capo al datore di lavoro. Questo secondo genere di responsabilità può infatti ravvisarsi per effetto della disposizione di cui all’art. 1374 c.c. (per cui “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge”), disposizione alla stregua della quale anche gli obblighi normativi in materia di prevenzione entrano a far parte del contenuto della prestazione contrattuale del datore di lavoro.

La medesima conclusione si fonda poi anche sulla considerazione che comunque le disposizioni di carattere generale delle leggi in materia di sicurezza costituiscono esplicazione del contenuto della già citata norma di cui all’art. 2087 c.c., per cui rappresentano, per questo tramite, un parametro di valutazione dell’adempimento del datore di lavoro. È noto, invero, che la tale norma è da sempre indicata quale vera e propria summa dei principi essenziali nella materia della sicurezza del lavoro e come norma di chiusura dell’ordinamento giuridico inteso alla prevenzione dei danni per i lavoratori. In questo senso la norma stessa viene quindi a rivestire un ruolo essenziale anche per individuare il fondamento giuridico dell’obbligo, per il datore di lavoro, di tutelare le condizioni soggettive dei propri dipendenti e, conseguentemente, del divieto di compiere (o tollerare che altri compia) azioni in grado di nuocere (o addirittura specificamente finalizzate a nuocere) alla salute altrui.

Al lavoratore danneggiato per effetto della violazione delle disposizioni di prevenzione è quindi apprestata dall’ordinamento una tutela di carattere risarcitorio, quale che sia il genere di responsabilità che egli intenda far valere.
Ma, come è noto, la violazione di quasi tutte le disposizioni delle leggi speciali poste a tutela della sicurezza del lavoro rileva anche penalmente, avendo il legislatore configurato dei reati contravvenzionali con riferimento alle violazioni stesse. Anche a proposito delle azioni riconducibili al concetto di mobbing che si traducano in violazioni delle disposizioni sulla sicurezza del lavoro sono pertanto configurabili sanzioni di natura penale a carico degli autori.

6. L’analisi delle pertinenti disposizioni del d.lg. n. 626/94. Le misure generali di tutela. – Così precisata, dunque, in termini generali, la rilevanza delle disposizioni (e dunque delle relative violazioni) della normativa di prevenzione anche in tema di mobbing, va ora appurato quali disposizioni possono concretamente venire in rilievo per individuare divieti e responsabilità apprezzabili con riguardo al fenomeno mobbing.
In proposito giova subito osservare che la più recente normativa di prevenzione, ed in primo luogo il fondamentale d.lg. n. 626/94, ha introdotto, con riferimento alla dimensione ed al contenuto degli obblighi che fanno capo al datore di lavoro, innovazioni di estremo interesse, che appaiono rilevanti anche con riferimento alla prevenzione di condotte riconducibili al concetto di mobbing. Deve, infatti, innanzi tutto sottolinearsi l’indubbia novità rappresentata dall’elencazione, all’art. 3 del d.lg. n. 626/94, di “misure generali per la protezione della salute e per la sicurezza dei lavoratori”, le quali costituiscono, in sostanza, le direttive di fondo cui deve ispirarsi la condotta del datore di lavoro nella programmazione e nell’articolazione, in seno all’attività aziendale, degli obiettivi di sicurezza del lavoro. Tali principi di fondo costituiscono in gran parte un’esplicazione normativa dell’obbligo generale di sicurezza tradizionalmente individuato nella ricordata disposizione di cui all’art. 2087 c.c. e possono considerarsi espressione di obiettivi generali fondamentali, ai quali ogni datore di lavoro è tenuto ad improntare le proprie scelte elaborative, organizzative ed attuative in tema di prevenzione.

In questo senso vanno dunque richiamati, per quanto specificamente interessa la problematica in questione, sia le indicazioni contenute nell’art. 3 a proposito dell’esigenza di provvedere all’ottimizzazione delle condizioni tecniche, produttive ed organizzative d’impresa in funzione delle esigenze di prevenzione (lett. d) sia, soprattutto, l’obiettivo di tutela della personalità fisica e morale del lavoratore, da conseguire attraverso profili diversi, tra i quali vanno menzionati il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, ed in particolare nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, anche per attenuare il lavoro monotono e quello ripetitivo (lett. f) ed il controllo sanitario dei lavoratori in funzione dei rischi specifici (lett. l). Ed ancora non possono non apparire pertinenti anche all’esigenza di tutela del lavoratore da possibili azioni mobbizzanti i principi di ordine generale che impongono di curare l’informazione, la formazione, la consultazione e la partecipazione dei lavoratori o dei loro rappresentanti (lett. s) e di fornire ai lavoratori istruzioni adeguate (lett. t). È evidente, infatti, che il rispetto di tali misure generali di tutela si dimostra di per sé inconciliabile con azioni che valgano, invece, a vessare il lavoratore, anche in considerazione del fatto che le condizioni di sicurezza del lavoro non possono mai prescindere dall’attenzione anche alla personalità morale del lavoratore e, conseguentemente, all’esigenza di prevenire disagi di carattere psichico.

E certamente opportuna è poi l’integrazione apportata all’originaria stesura del d.lg. n. 626/94 dal d.lg. n. 242/96, secondo la quale (art.1 comma 4-bis del d.lg. n. 626/94, introdotto dal successivo decreto) in una visione complessiva di più organico collegamento tra le prerogative del datore di lavoro e quelle di dirigenti e preposti, le misure generali di tutela indicate dal decreto devono costituire un parametro di riferimento anche per l’attività di tali ultimi soggetti.
È noto come la violazione delle misure in parola non rinvenga alcuna sanzione tipica nell’ambito del d.lg. n. 626/94. Ciò peraltro si giustifica con la ricordata natura di principi di fondo che caratterizza le indicazioni di cui all’art. 3 e nulla toglie al fatto che i medesimi principi possano costituire il parametro di valutazione della condotta del datore di lavoro (oltre che di dirigenti e preposti) anche nel giudizio circa la responsabilità per eventuali fenomeni di mobbing che abbiano a manifestarsi nell’ambito aziendale.

7. Gli obblighi di carattere generale. – Ma un altro aggancio per individuare il fondamento normativo del divieto di condotte mobbizzanti può essere rinvenuto nell’analisi degli obblighi di carattere generale che incombono sul datore di lavoro a fini di prevenzione e che sono stati rivisitati dal d.lg. n. 626/94. Questa legge ha, da un lato, contribuito a chiarire, ampliandone la portata, obblighi già delineati dalla precedente normativa ed ha, dall’altro, introdotto obblighi nuovi, al fine di rendere più adeguatamente attuabile l’obbligo generale di sicurezza.
La ridefinzione degli obblighi di carattere generale muove essenzialmente dal comma 5 dell’art. 4 del d.lg. n. 626/94, norma che disegna una serie di obblighi che costituiscono in parte una reiterazione, anche se attraverso una specificazione più analitica, di quelli già contemplati dagli articoli 4 del d.P.R. n. 547/55 e 4 del d.P.R. n. 303/56 ed in parte una concretizzazione di incombenze certamente già ricomprese nel più generale obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c.
Per quanto attiene la problematica che in questa sede interessa deve menzionarsi, innanzi tutto, l’obbligo generale (sprovvisto di sanzione diretta) di adottare le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori (art. 4 comma 5 prima parte): la portata senza dubbio ampia ed onnicomprensiva che tradizionalmente si assegna al termine “misure” nel settore della sicurezza del lavoro non può non consentire, ad esempio, di ricomprendere nel termine stesso anche quelle soluzioni organizzative che siano in grado di precludere la vicinanza del lavoratore mobbizzato con i colleghi autori delle condotte mobbizzanti. Ma tra gli altri obblighi più specificamente delineati nella norma in parola, che ricevono apposita sanzione penale, nell’ambito dell’art. 89, per il caso di trasgressione, appare assai interessante, ai fini in questione, quello di tener conto delle condizioni soggettive dei lavoratori in sede di scelta dei compiti da affidare, in rapporto alla salute ed alla sicurezza dei lavoratori stessi (lett. c); è evidente che il datore di lavoro non può, alla luce della previsione citata, disinteressarsi di eventuali situazioni mobbizzanti di cui venga a conoscenza, in quanto attengono specificamente alle condizioni soggettive del lavoratore, in rapporto all’esigenza di tutela della salute dello stesso. Ed ancora può ben dirsi che gli ulteriori obblighi di curare che solo i lavoratori adeguatamente istruiti accedano alle zone in cui vi è esposizione ad un rischio grave e specifico (lett. e) e di astenersi dal richiedere ai lavoratori di riprendere l’attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato (lett. l) valgono a vietare, in radice, eventuali intenti vessatori che si possano concretare nel richiedere al lavoratore prestazioni oggettivamente pericolose.

Più in generale, anche la più accresciuta portata dell’obbligo di informazione nei confronti dei lavoratori (art. 21) può essere letta come fondamento del divieto di porre in essere condotte che tendano, invece, ad isolare e dequalificare il lavoratore. Per altro verso è poi evidente anche la rilevanza di una buona informazione dei lavoratori proprio a proposito del fenomeno mobbing; questo fenomeno costituisce infatti un ulteriore rischio che può ricollegarsi al concreto espletamento della prestazione lavorativa, per cui è doveroso che ogni lavoratore riceva adeguate informazioni in ordine al fenomeno stesso.
Analogamente è a dirsi a proposito dell’obbligo di formazione dei lavoratori in materia di sicurezza, introdotto dall’art. 22 e delineato, in particolare, con riferimento alla formazione in ordine alle caratteristiche del proprio posto di lavoro e delle proprie mansioni. Tale formazione deve necessariamente comprendere sia l’insegnamento di nozioni teoriche che l’addestramento pratico e deve avvenire non solo in occasione dell’assunzione, ma anche in concomitanza con il cambiamento, anche temporaneo, delle mansioni, dell’introduzione di nuove tecnologie e dell’evoluzione dei rischi tipici dell’attività aziendale. Non è fuori luogo pensare che, da un lato, intenti pregiudizievoli nei confronti di un dipendente possano tradursi nell’esclusione di questi da iniziative formative e, dall’altro, che un addestramento efficace possa estendersi anche alle modalità per prevenire e fronteggiare, in concreto, condotte vessatorie altrui.

Da ultimo, è indubbio che uno strumento fondamentale per prevenire, individuare e denunciare condotte vessatorie pregiudizievoli per l’integrità psicofisica del lavoratore è ravvisabile in un adeguato esercizio della sorveglianza sanitaria all’interno dei luoghi di lavoro, in tutti quei settori in cui la normativa vigente prescriva l’obbligo di operare tale sorveglianza. Il contenuto della sorveglianza sanitaria è definito dall’art. 16 del d.lg. n. 626/94, mentre il successivo art. 17 delinea i compiti propri del medico competente, figura cui compete l’esercizio della sorveglianza stessa.

8. Le figure soggettive coinvolte nella prevenzione del mobbing. – E proprio con riguardo alla nuova definizione normativa dell’organizzazione aziendale ai fini della sicurezza, ed al conseguente coinvolgimento di figure specifiche, anche di nuova creazione normativa, è possibile trarre spunti per argomentare, da un lato, il dovere del datore di lavoro di assicurarsi che all’interno della propria azienda non si verifichino fenomeni qualificabili come mobbing e, dall’altro, il dovere di altri soggetti, titolari di prerogative specifiche nella gestione della sicurezza, di verificare e denunciare situazioni del medesimo genere.
Fondamentale è, innanzi tutto, il rilievo assunto, nell’assetto del d.lg. n. 626/94, dall’obbligo di nomina del medico competente e, conseguentemente, dalla nuova concezione dei contenuti della sorveglianza sanitaria che il decreto è venuto, coerentemente, a tracciare. Al riguardo preme sottolineare l’ampia sfera di collaborazione con il datore di lavoro che viene a delinearsi in ragione del coinvolgimento del medico competente in una vasta gamma di attività aziendali in tema di sicurezza e, quindi, la conferma dell’intento legislativo di rendere altri soggetti, in funzione delle specifiche cognizioni di questi e del diretto interesse al raggiungimento degli obiettivi di sicurezza, compartecipi nelle scelte di prevenzione operate in ambito aziendale. È perciò chiara l’importante funzione che il medico competente è chiamato a svolgere per evidenziare tempestivamente situazioni che possano incidere sulla tranquillità dei lavoratori e quindi minarne l’integrità psicofisica. Proprio nel corso delle visite mediche periodiche, o durante le visite agli ambienti di lavoro, il medico competente può rendersi conto dell’esistenza di situazioni del genere indicato, o quanto meno di pregiudizi all’integrità psicofisica del lavoratore causalmente collegabili alle situazioni stesse. Se pure non è tenuto a compiere indagini che non siano di stretto ordine medico, egli è comunque tenuto ad evidenziare al datore di lavoro quanto riscontrato, al fine dell’adozione dei necessari provvedimenti. Ma il medico competente è titolare anche di autonomi compiti di informazione, allo scopo di porre i lavoratori in condizione di conoscere i rischi cui sono sottoposti per effetto dell’attività lavorativa e quindi di prendere cura della propria salute anche al di fuori dell’arco di espletamento dell’attività stessa. Egli deve, dunque, fornire ai lavoratori informazioni sul significato e sull’esito degli accertamenti sanitari cui sono sottoposti e quindi anche, se del caso, sui rischi connessi alla sottoposizione costante a pratiche vessatorie.

Per altro verso, avuto riguardo ad altra innovazione fondamentale introdotta dal d.lg. n. 626/94, e cioè quella di concepire una vera e propria funzione di prevenzione e protezione, attribuita alla titolarità di un organo all’uopo espressamente istituito, appunto il servizio di prevenzione e protezione, non appare inutile segnalare che anche quando gli addetti a tale organismo si accorgano dell’esistenza di situazioni in grado di nuocere alla salute del lavoratore essi sono tenuti ad evidenziarne l’esistenza al datore di lavoro ed eventualmente a proporre quelle misure organizzative in grado di prevenire le situazioni stesse e quindi di ristabilire condizioni di lavoro in sicurezza.
Infine, appare importante sottolineare la possibile rilevanza, ai fini che interessano, di un’altra figura concepita innovativamente dal d.lg. n. 626/94, e cioè il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Tale soggetto deve operare sostanzialmente da tramite tra la collettività dei lavoratori ed il datore di lavoro, anche al fine di prospettare a quest’ultimo eventuali esigenze che attengono all’organizzazione della sicurezza in azienda, nella prospettiva di conseguire un miglioramento dell’attività di prevenzione. Se dunque il rappresentante per la sicurezza viene, o viene portato, a conoscenza dell’esistenza di situazioni di disagio per il lavoratore, tali da comportare possibili ripercussioni negative sulla salute di questi, non può esimersi dal renderne partecipe il datore di lavoro, al fine dell’adozione dei provvedimenti conseguenziali. La figura in questione può costituire pertanto un utile strumento, per i lavoratori mobbizzati, per fare emergere dei casi delicati che magari il singolo lavoratore ha paura di evidenziare autonomamente.

Significativo, a conferma della rilevanza del ruolo che deve essere svolto dalle figure soggettive appena accennate per il contrasto delle pratiche vessatorie sul posto di lavoro, è il contenuto del testo unificato dei disegni di legge in materia di tutela dei lavoratori dal mobbing. Con l’art. 2, concernente le attività di prevenzione e di accertamento, sono espressamente devoluti compiti operativi in materia alle figure in questione: al servizio di prevenzione e protezione quello di individuare le misure per la sicurezza volte a prevenire e a contrastare i fenomeni di violenza e persecuzione psicologica; al medico competente quello di collaborare nell’attuazione di tali misure; al rappresentante per la sicurezza quello di espletare anche attività di promozione, volta all’elaborazione, individuazione e attuazione di misure di prevenzione dei fenomeni di violenza e persecuzione psicologica.

9. Le conseguenze dell’azione mobbizzante: la malattia nella mente quale lesione penalmente rilevante. – Di indubbio interesse è, infine, la problematica relativa alla rilevanza, sotto il profilo penale, delle conseguenze dell’azione mobbizzante, vale a dire di quei pregiudizi all’integrità psicofisica della vittima che, di fatto, il più delle volte accompagnano inevitabilmente la sequenza delle condotte vessatorie. Ci si intende riferire non tanto alle conseguenze materiali di aggressioni fisiche, rispetto alle quali è indubbiamente configurabile il delitto di lesioni personali dolose (art. 582 c.p. aggravato, nel caso di lesioni personali gravi o gravissime, ai sensi dell’art. 583 c.p.), quanto a quelle conseguenze più subdole, e forse, almeno inizialmente, meno appariscenti, che possono incidere sulla salute del lavoratore e provocare quello che, con terminologia incisiva, può essere definito come un “danno psichico”.
Senza alcuna pretesa di esaurire l’argomento, appare al riguardo chiara e puntuale la definizione fornita da un noto autore, il quale si riferisce alla “lesione dell’integrità psicofisica sotto il profilo di un danno psichico non inquadrabile immediatamente come una delle classiche patologie mentali. Si tratta, cioè, di tutto quel complesso di turbe di carattere nevrotico, di menomazioni a carattere più squisitamente psicologico, che vanno al di là del disagio o del disturbo esistenziale per sconfinare in vere e proprie forme patologiche, ancorché non di tipo tradizionale…Quanto al fatto che non si tratti di vere e proprie malattie, questo assunto deriva da concezioni antiquate, secondo le quali la malattia mentale è solo quella studiata e valutata dalla psichiatria, in qualche modo ‘misurabile’ e rientrante nelle definizioni classiche dell’Organizzazione mondiale della sanità. In epoca più recente, gli studi più aggiornati hanno dimostrato che disturbi psicologici possono assurgere a livello di vere e proprie situazioni patologiche o di processi patologici”.

Il punto è dunque quello di stabilire se tali patologie, notoriamente ricollegabili a pratiche di mobbing, rilevino anche sotto il profilo penale.
È noto che le lesioni personali rilevano penalmente, secondo la previsione dell’art. 582 c.p., quando ne derivi una malattia nel corpo o nella mente. Per malattia si intende, ai fini in questione, qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo, ancorché localizzata, di lieve entità e non influente sulle condizioni organiche generali. L’espressa previsione legislativa di “malattia nella mente” attesta che anche le alterazioni del sistema nervoso, purché apprezzabili nei termini appena ricordati, valgono a concretare un evento lesivo penalmente rilevante. Le affezioni che possono derivare dal mobbing appaiono dunque, in linea di massima, certamente inquadrabili nel concetto di malattia penalmente rilevante. Si pensi, ad esempio, a patologie cliniche già ampiamente note, quali gli stati depressivi ed ansiosi, le nevrosi e le patologie in generale che si manifestano come disturbi del comportamento (apatia, ovvero aumento dell’irritabilità) fino al deficit di memoria, ai disorientamenti. Deve invece escludersi il rilievo dei semplici stati di turbamento, sofferenza o agitazione, se non correlati ad un’alterazione funzionale qualificabile, secondo la scienza medica, come malattia psichica. Queste precisazioni devono essere attentamente considerate allorquando si debba valutare se la violenza nella quale si sono tradotti gli intenti vessatori abbia prodotto lesioni penalmente rilevanti.

La problematica inerente la configurabilità di una malattia penalmente rilevante risulta ovviamente rilevante anche a proposito delle fattispecie di lesioni personali colpose. Viene in evidenza, in questi casi, il delitto di cui all’art. 590 c.p., che punisce chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che nei casi di lesioni gravi o gravissime (da individuare secondo quanto previsto dall’art. 583 c.p.) commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.
È evidente che alla luce della particolare accezione del termine mobbing, in campo giuridico, che si è patrocinata in questo scritto, secondo la quale il connotato che vale a qualificare le condotte vessatorie è quello costituito dall’intenzionalità delle stesse e del conseguente effetto negativo sulla personalità del mobbizzato, sarà ben difficile ricondurre ad un fatto di mobbing delle lesioni (e conseguenti malattie) che rinvengano un atteggiamento colposo quale fattore causale. Posto, invero, che va ricompresa nel concetto di dolo anche la categoria del c.d. dolo eventuale, che sussiste quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta……………. .

 

tratto dal fascicolo n. 10 – 2005 del periodico Cassazione Penale Author: De Falco Giuseppe

tratto da giuffre editore

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