Mobbing e maltrattamenti in famiglia: non c'è reato se l'azienda è medio-grande

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 5 – 20 marzo 2014, n. 13088

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGINIO Adolfo – Presidente –

Dott. LANZA Luigi – Consigliere –

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Consigliere –

Dott. VILLONI Orlando – Consigliere –

Dott. APRILE Ercole – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 sentenza

sul ricorso proposto da:

1. B.C., nato a (OMISSIS);

2. I.S., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 13/03/2013 della Corte di appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Ercole Aprile;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. D’AMBROSIO Vito, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;

udito per gli imputati l’avv. Antonella Camelli e l’avv. Marco Seveso per il B., la stessa avv. Camelli e l’avv. Ettore Stravino per lo I., che hanno concluso chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Milano riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, riconoscendo ai due imputati le attenuanti generiche e dichiarando estinti i reati loro ascritti, e confermava nel resto la medesima pronuncia del 13/10/2011 con la quale il Tribunale di Busto Arsizio aveva condannato B.C. e I.S. al risarcimento dei danni cagionati alle costituite parti civili C.S. e R.G.R., in relazione ai reati di cui agli artt. 81 cpv., 110 e 572 c.p., per avere, all’interno della azienda Cartoprint Fraber s.p.a. di Caronno Pertusella, almeno sino al (OMISSIS), lo I. quale direttore di produzione ed il B. come suo stretto collaboratore, costituito un gruppo che maltrattava i lavoratori, tra i quali la C., la R. e R. S., non graditi perchè si erano rifiutati di conformarsi alle logiche di quel gruppo – tra le quali quelle di sottostare a scherzi, anche a sfondo sessuale, da parte dei superiori e dei colleghi – o perchè iscritti ad organizzazioni sindacali o perchè ritenuto non adeguati alla gestione, ponendo in essere nei loro confronti una serie di condotte vessatorie, in particolare consistenti, per la C. e la R., in approcci sessuali tanto verbali quanto fisici (sotto forma di toccamenti delle natiche e di altre parti del corpo, baci e tentativi di baci, abbracci e sfregamenti intenzionali del corpo con le parti intime, approcci tutti rifiutati dalle due donne), nella loro assegnazione deliberata a macchinari difettosi con rifiuto di provvedere alla relativa riparazione, in contestazioni e rimproveri pubblici, a contenuto gratuitamente offensivo; in demansionamenti punitivi e episodi di preordinato isolamento dei lavoratori, in particolare, per la C., all’interno di una sala di umidificazione; con l’aggravante dell’essere derivati dal fatto alle persone offese lesioni personali gravi.

Rilevava la Corte di appello come i reati, in ragione del riconoscimento delle attenuanti ex art. 62 bis c.p., dovessero essere dichiarati prescritti; ma come la sentenza di primo grado dovesse essere confermata agli effetti civili, in quanto le condotte accertate, sulla base dei risultati dell’espletata istruttoria dibattimentale, avevano integrato gli estremi del delitto contestato, anche nella forma aggravata riferibile ad entrambi i capi di imputazione, dei quali uno contestato a tutti e due gli imputati e l’altro al solo I.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso, agli effetti civili, lo I., con atto sottoscritto dai suoi difensori avv. Antonella Camelli e l’avv. Ettore Stravino, il quale ha dedotto i seguenti cinque motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione all’art. 511 c.p.p., comma 2, e art. 525 c.p.p., comma 2, per avere la Corte di appello omesso di pronunciarsi sulla specifica doglianza, contenuta nell’appello, con la quale la difesa aveva eccepito la nullità della sentenza di primo grado per essere stata emessa da un Giudice diverso da quello dinanzi al quale erano state assunte parte delle prove dibattimentali, senza disporre la rinnovazione del provvedimento di ammissione nè tanto meno provvedendo alla riassunzione di quelle prove.

2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, per avere la Corte di appello confermato le statuizioni civili contenute nella sentenza di prime cure, trascurando le deposizioni rese da numerosi testi escussi, senza considerare la documentazione prodotta dalla difesa in ordine alle dimensioni ed alle caratteristiche organizzative dello stabilimento della società Cartoprint, valorizzando dati informativi dai quali non era affatto emersa l’esistenza di “festini” tra i dipendenti dell’azienda, nonchè senza valutare gli esiti del giudizio civile di risarcimento danni che era stato intentato da alcuni lavoratori nei confronti della Cartoprint e l’ulteriore documentazione atta a dimostrare l’andamento dei rapporti lavorativi di alcune persone offese, in specie della C. e della R. (le cui indicazioni erano risultate inattendibili), e l’assenza di un nesso di causalità tra le attività lavorative svolte e le patologie lamentate da talune presunti vittime.

2.3. Violazione di legge, in relazione all’art. 572 c.p., per avere la Corte distrettuale erroneamente qualificato i fatti accertati, al più configuranti isolate ipotesi di mobbing nell’ambito di un contesto lavorativo di ampie dimensioni spaziali e personali, come integrante gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia:

reato, questo, sussistente solo nel caso in cui, per le ridotte dimensioni dell’impresa e per la qualità delle relazioni tra il datore di lavoro ed i lavoratori, tali rapporti possano intesi come “parafamiliari” ed assimilarsi a quelli esistenti tra i componenti di una vera e propria famiglia.

2.4. Violazione di legge, in relazione all’art. 521 c.p.p., per avere la Corte territoriale disatteso l’eccezione di nullità formulata, per inosservanza del principio di correlazione tra accusa e decisione, contro la sentenza di primo grado con la quale l’imputato era stato condannato per il reato di maltrattamenti aggravati dall’art. 572 c.p., comma 2, anche in relazione alla posizione delle persone offese C. e R., laddove l’originaria imputazione conteneva la contestazione di quell’addebito esclusivamente con riferimento alle condotte poste in essere ai danni della persona offesa Ra.

2.5. Violazione di legge, in relazione all’art. 578 c.p.p., per avere il Giudice di primo grado condannato l’imputato al risarcimento dei danni in favore delle parti civili C. e R., laddove, se fosse stato rispettato il principio di correlazione tra accusa e sentenza, avrebbe dovuto dichiarare l’intervenuta estinzione del reato commesso in danno delle due predette parti civili e, dunque, astenersi dal decidere sulle domande avanzate da tali parti private.

2.6. Con nota depositata il 14/02/2014 l’avv. Ettore Stravino, nell’interesse dello I., ha prodotto varia documentazione a sostegno del secondo motivo del ricorso.

3. Contro la medesima sentenza ha proposto ricorso, sempre ai soli effetti civili, anche il B., con atto sottoscritto dai suoi difensori avv. Antonella Camelli e avv. Marco Seveso, il quale ha dedotto quattro motivi, nella sostanza assimilabili rispettivamente al secondo, al terzo, al quarto ed al quinto dei motivi del ricorso dello I., con la specificazione concernente alla valutazione delle prove sul ruolo nella vicenda assunto dal B. (pagg. 19-23 del ricorso).

4. Ritiene la Corte che i ricorsi siano fondati, sia pure nei limiti di seguito precisati.

4.1. Il primo motivo del ricorso dello I. è manifestamente infondato, risultando dagli atti che, nel corso del giudizio di primo grado, nell’udienza del 23/12/2010, i difensori dell’imputato prestarono, senza riserva alcuna, il consenso alla utilizzabilità delle prove fin lì assunte anche laddove il magistrato che allora componeva il Tribunale monocratico fosse stato sostituito, mutamento che venne poi effettivamente operato in una successiva udienza: ciò senza che quel consenso venisse revocato ovvero venisse altrimenti manifestato un dissenso alla utilizzazione delle prove già acquisite, comportamento questo di tacito assenso che, secondo il pacifico orientamento di questa Corte, deve essere parificato ad un consenso espresso (così Sez. 1, n. 18308 del 14/01/2011, Bellarosa e altri, Rv. 250220; Sez. 2, n. 34723 del 04/06/2008, Rotondi, Rv. 241000).

4.2. Il secondo motivo del ricorso dello I. ed il secondo del ricorso dello B. sono inammissibili perchè diretti a fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.

Al di là del formale dato enunciativo (avendo lo I. fatto riferimento anche ad una violazione di legge che rimane assorbita nella denunciata mancanza di motivazione), i ricorrenti solo formalmente hanno indicato, come motivi delle loro impugnazioni, il vizio di manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, ma non hanno prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; nè hanno lamentato una inadeguata descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.

I ricorrenti, invero, si sono limitati a criticare il significato che la Corte di appello di Milano aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado:

tuttavia, bisogna rilevare come i ricorsi, lungi dal proporre un “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, sono stati presentati per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di analisi, sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente.

Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215).

La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede, nella parte relativa alla valutazione delle prove ed alla ricostruzione dei fatti, una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte lombarda analiticamente spiegato come le attendibili indicazioni accusatorie provenienti dalle tre persone offese C., R. e Ra., oltre a corroborarsi una con l’altra, avessero trovato adeguato riscontro nelle deposizioni dei testi M., Ba., Ca. e Mi., senza essere inficiate nella loro valenza dimostrativa dalle dichiarazioni dei testi N., D.P. e D.L., apparse generiche e, soprattutto, non credibili perchè provenienti da soggetti ancora in servizio nella Cartoprint, già facenti parte di gruppo di dipendenti che aveva beneficiato di un trattamento privilegiato da parte degli imputati.

Ricostruzione fattuale sulla quale, come la Corte ha efficacemente chiarito, hanno inciso anche i risultati degli accertamenti a suo tempo compiuti dal medico della locale asl in ordine alle conseguenze patologiche patite dalle tre persone offese, essendo state, invece, giudicate irrilevanti le determinazioni cui era pervenuta l’autorità giudiziaria in una causa di lavoro intentata dal Ra. contro la Cartopint in quanto fondata sulla verifica, nell’ambito della specificità di quel rito, dell’esistenza del diverso illecito civile. Elementi di conoscenza alla luce dei quali poteva ritenersi acclarato che entrambi gli imputati – compreso il B., che aveva concorso nella gran parte delle iniziative vessatorie direttamente riferibili al direttore di produzione I. – avevano posto in essere, ai danni delle elencate persone offese, una serie reiterata di comportamenti vessatori e persecutori, in un arco temporale di significativa durata, negativamente qualificati da un marcato atteggiamento discriminatorio, anche e soprattutto di natura sessista, che aveva causato nelle vittime quelle patologie psico- fisiche oggetto della verifica dibattimentale (v. pagg. 8-9 sent. impugn.).

4.3. Il quarto motivo del ricorso dello I. ed il terzo del ricorso dello B. – con valutazione assorbente rispetto all’esame dei connessi quinto motivo del ricorso dello I. e quarto motivo del ricorso del B. – sono infondati.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, ai fini della contestazione di una circostanza aggravante, non è indispensabile una formula specifica espressa con enunciazione letterale, nè l’indicazione della disposizione di legge che la prevede, essendo sufficiente che, conformemente al principio di correlazione tra accusa e decisione, l’imputato sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante (in questo seno, tra le tante, Sez. 6, n. 40283 del 28/09/2012, P.G. in proc. Diaji, Rv. 253776 Sez. 5, n. 38588 del 16/09/2008, Fornaro e altri, Rv. 242027; Sez. 2, n. 47863 del 28/10/2003, Ruggio, Rv. 227076).

Di tale regula iuris la Corte di appello di Milano ha fatto buon governo osservando come, nell’ambito di una imputazione molto articolata e senza divisioni per capi indicati con lettere o numeri, il richiamo, contenuto nella parte finale alla “aggravante dell’essere derivato dal fatto lesioni personali gravi” (risultante da una integrazione della contestazione operata dal P.M. nell’udienza del 31/01/2008), integrante la circostanza prevista dall’art. 572 c.p., comma 2, dovesse considerarsi riferibile tanto alle condotte addebitate ad entrambi gli imputati nella prima parte dell’imputazione (nella quale ai prevenuti era stato ascritto genericamente il reato di cui all’art. 572 c.p., in danno della C. e della R.), quanto alle condotte tratteggiate nella seconda parte dell’imputazione, in relazione alla posizione del solo I., nella quale l’aggravante in parola era stata indicata più specificamente con l’enunciazione anche dell’art. 572 c.p., comma 2, per le condotte poste in essere in danno pure del Ra.. E come, in ogni caso, nella fattispecie non potesse considerarsi violato il principio della correlazione tra l’accusa e la sentenza, tenuto conto che la questione relativa alla natura ed alla malattia riscontrata in tutte e tre le persone offese aveva costituito oggetto dell’istruttoria dibattimentale e su di essa era stato pienamente integrato il contraddittorio delle parti, sicchè gli imputati sono stati posti nelle condizioni di esercitare senza riserve le loro difese e di valere le proprie ragioni sugli elementi di fatto integranti quella circostanza aggravante.

4.4. Sono, invece, fondati il terzo motivo del ricorso dello I. ed il primo del ricorso del B..

Costituisce espressione del più recente indirizzo giurisprudenziale, oramai nettamente prevalente, il principio per il quale non ogni fenomeno di mobbing – e cioè di comportamento vessatorio e discriminatorio – attuato nell’ambito di un ambiente lavorativo, integri gli estremi del delitto di maltrattamenti in famiglia, in quanto, per la configurabilità di tale reato, anche dopo le modifiche apportate dalla L. n. 172 del 2012, è necessario che le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) si inquadrino in un rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente capace di assumere una natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (così, tra le diverse, Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, P.C. in proc. S. e altro, Rv. 255976; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, I., Rv. 252609; Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, R. e altro, Rv. 252607): rapporto di soggezione anche psicologica che può assumere siffatte caratteristiche para-familiari in ragione delle peculiarità dell’attività lavorativa prestata (si pensi alla relazione tra un maestro d’arte ed il suo apprendista) ovvero delle dimensioni e natura organizzativa del luogo di lavoro (si pensi alla relazione tra padrone di casa e lavoratore domestico), cioè in situazioni nelle quali è possibile riconoscere quella sottoposizione all’altrui autorità ovvero quell’affidamento per l’esercizio di una professione o di un’arte, cui fa espresso riferimento l’art. 572 c.p.. Con la conseguenza che il delitto de quo non è configurabile, anche in presenza di una chiaro fenomeno di mobbing lavorativo, laddove non siano riconoscibili quelle particolari caratteristiche, ad esempio se la vicenda si sia verificata nell’ambito di una realtà aziendale sufficientemente articolata e complessa, in cui non è ravvisabile quella “stretta ed intensa relazione diretta tra datore di lavoro e dipendente, (che) determina una comunanza di vita assimilabile a quella (del) consorzio familiare” (così, in particolare, Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P.G. in proc. P. e altro, Rv. 244457), i cui interessi la norma incriminatrice de qua ha inteso proteggere.

Alla luce di tale criterio di giudizio va rilevata la palese violazione di legge commessa con la sentenza gravata nella quale, a fronte dell’accertata esistenza di una realtà aziendale di non ridotte dimensioni, caratterizzata da uno stabilimento di notevole entità spaziale e dalla non contestata presenza di circa cinquanta dipendenti, anche sindacalizzati, la Corte di merito ha messo in risalto – oltre alla indeterminata esistenza di un potere direttivo e disciplinare esercitato dal datore di lavoro nei confronti del lavoratore subordinato, ed alla riconosciuta sussistenza, all’interno della Cartoprint, di un sistematico ed abituale fenomeno di sopraffazione e atteggiamento vessatorio assunto dal direttore I. e dal suo collaboratore ed “alter ego” B. nei riguardi di alcuni specifici dipendenti dell’azienda – la generica esistenza “di un ambito familiare ed estremamente confidenziale” rapporto tra gli imputati e le persone offese, finalizzato esclusivamente ad ottenere un’obbediente esecuzione delle direttive impartite e ad evitare rivendiche contro pretese non gradite dai superiori e interferenze da parte delle organizzazioni sindacali (v. pagg. 9-11 sent. impugn.); non potendo neppure condurre a differenti conclusioni la circostanza, sottolineata nel provvedimento gravato, che gli imputati angheriassero quei dipendenti che “non volevano entrare a far parte della grande famiglia”, poichè si trattava solamente di un espediente verbale usato dai predetti per poter “giustificare” le loro iniziative ovvero per potere più agevolmente vincere le resistenze delle loro vittime. Situazione, questa, nella quale, a mente dell’art. 129 c.p.p., comma 2, (dunque, pure in presenza della causa di estinzione per prescrizione), evidentemente non sono riconoscibili quelle peculiarità dell’attività prestata dal dipendente ovvero quelle contenute dimensioni dell’azienda che avrebbero permesso di raffigurare quel contesto di “para- familiarità” che, ai fini che qui interessano, permette di parificare un ambiente di lavoro ad una famiglia.

La sentenza impugnata deve essere, dunque, annullata senza rinvio perchè il reato contestato di cui all’art. 572 c.p., non sussiste.

5. In assenza dei presupposti necessari per la configurabilità dello specifico delitto oggetto di contestazione, i Giudici di merito avrebbero potuto riconoscere la sussistenza di altri reati, pure configurabili a carico degli imputati, loro addebitati in fatto, quali quelli di lesioni personali gravi, di minaccia, di ingiuria e d. violenza privata, eventualmente aggravati dall’abuso di relazioni d’ufficio o di prestazione di opera. Si trattava, però, di illeciti, commessi fino al dicembre del 2002, per i quali, anche in ragione delle attenuanti generiche concesse ai due prevenuti, si sarebbe dovuta riconoscere l’intervenuta estinzione per prescrizione fin in epoca precedente a. 13/10/2011, data di adozione della sentenza di primo grado: il che avrebbe impedito al giudice penale di pronunciarsi sui soli effetti civili, – imponendo alle due persone offese di promuovere eventualmente un’autonoma azione in sede civile – dato che l’art. 578 c.p.p., stabilisce che, in tanto sia possibile decidere la causa a quei soli effetti, in quanto, pur in presenza della verificata intervenuta prescrizione, vi sia stata una sentenza di condanna degli imputati agli effetti penali, emessa almeno in primo grado.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato di cui all’art. 572 c.p., non sussiste.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2014.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2014

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