Il dipendente può limitarsi a dimostrare l’esistenza del nesso di causalità fra esecuzione della prestazione lavorativa e lesioni subite. Spetta al datore di lavoro sostenere di aver adottato tutte le precauzioni necessarie a evitare il danno (tribunale di Tempio Pausania, Sez. lav. n. 157/03)
In caso di mobbing l’onere probatorio che grava sul lavoratore è limitato alla prova del nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’esecuzione della prestazione lavorativa. Spetta poi al datore di lavoro dimostrare di avere adottato tutte le precauzioni necessarie a proteggere l’integrità psico-fisica del dipendente, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2087 del codice civile. Lo ha stabilito il tribunale di Tempio Pausania, in funzione di giudice del lavoro, nella sentenza n. 157 del 10 luglio 2003, nella quale sono state fornite anche utili indicazioni in merito ai criteri di liquidazione di questa particolare tipologia di danno.
La fattispecie
Nel caso di specie una dipendente di un ente locale sardo, assunta con la qualifica di vigile urbano, aveva presentato ricorso al tribunale di Tempio Pausania, in funzione di giudice del lavoro, lamentando il progressivo deterioramento dei propri rapporti con l’amministrazione comunale, in particolare con il sindaco, sino al verificarsi di una perdurante situazione di tensione, che era sfociata nell’irrogazione di una serie di sanzioni disciplinari illegittime, nel rigetto di una richiesta di mobilità e nell’allontanamento dai compiti di polizia stradale, giudiziaria e di pubblica sicurezza.
Più in generale, la ricorrente denunciava il fatto che nei suoi confronti fossero stati posti in essere una serie di comportamenti che avevano lo scopo di “(.) ghettizzarla, sotto il profilo sia umano che professionale (.)”, e di sottoporla ad un controllo disciplinare particolarmente intenso e persecutorio, che la aveva portata a uno stato depressivo di particolare gravità.
Il cosiddetto mobbing (termine che deriva dall’inglese “to mob”, cioè attaccare, assalire(1)) può essere definito come una particolare forma di violenza psicologica che viene esercitata nell’ambito lavorativo nei confronti della vittima dai propri colleghi o superiori(2). Finalità persecutoria degli atteggiamenti e carattere continuativo degli stessi sono le caratteristiche che contraddistinguono il fenomeno.
In Italia la scoperta del mobbing ha origini piuttosto recenti (soltanto a partire dalla metà degli anni 90 il termine ha cominciato a diffondersi fra gli studiosi) ed è ancora poco conosciuto presso le nostre corti(3).
Dal punto di vista delle conseguenze giuridiche che scaturiscono in capo ai soggetti che pongono in essere condotte di mobbing si può agevolmente distinguere tra responsabilità di natura civile e penale (per esempio, a seconda della gravità del danno psicologico provocato nella vittima, si possono ritenere integrate le fattispecie della violenza privata o delle lesioni personali).
La responsabilità di tipo civilistico viene generalmente fondata sugli articoli 2087(4), 2043(5) e 2049(6) del codice civile. In tutti questi casi il bene tutelato è quello dell’integrità psico-fisica del lavoratore (garantito anche dall’art. 32 della Costituzione). La lesione di questo particolare bene giuridico viene solitamente liquidata facendo ricorso alle categorie del danno biologico e del cosiddetto danno esistenziale.
1) Il termine è mutuato dall’etologia, nella quale indica il comportamento del branco che vuole allontanare un proprio simile.
2) Il fenomeno è stato studiato per la prima volta dallo psicologo tedesco Heinz Leymann.
3) Venendo alla elaborazione giurisprudenziale di tali concetti, si ricorda che le prime esperienze di merito che si sono confrontate con la nozione di mobbing risalgono alla fine degli anni 90 (le più citate: tribunale di Milano del 9 maggio 1998; tribunale di Torino del 16 novembre 1999; Tribunale di Forlì del 15 maggio 2001; tribunale di Pisa del 25 luglio 2001; tribunale di Pisa del 3 ottobre 2001), mentre la prima sentenza di Cassazione che ha esaminato un caso del genere risale al 2000 (n. 143).
4) “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
5) “Qualunque fatto doloso, o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
6) “I padroni e i committenti sono responsabili per i danni arrecati dal fatto illecito dei loro domestici e commessi nell’esercizio delle incombenze a cui sono adibiti”.
La decisione
Nel caso concreto il tribunale ha liquidato alla ricorrente (oltre al danno patrimoniale) la somma complessiva di 10.329,14 euro, a titolo di danno biologico ed esistenziale (nella quale ultima categoria sono stati fatti confluire anche il danno da demansionamento e il danno all’immagine).
Molto più interessanti risultano comunque le considerazioni effettuate dai giudici relativamente alla ripartizione dell’onere probatorio fra datore di lavoro e dipendente vittima del mobbing.
Nel caso di specie la ricorrente aveva prodotto in giudizio copiosa documentazione medica dalla quale risultava la crisi depressiva dalla quale era affetta e la dipendenza di questa dalle angherie subite sul posto di lavoro. Il giudice ha pertanto ritenuto che la parte attrice fosse riuscita a provare il nesso di causalità fra il danno psichico e l’esercizio dell’attività lavorativa. Diversamente il datore di lavoro non aveva affatto dimostrato di avere ottemperato all’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica della lavoratrice.
In base all’art. 2087 cc, infatti, spetta a quest’ultimo provare di aver adottato tutte le misure necessarie a salvaguardare il bene primario della salute psico-fisica dei propri dipendenti.
I criteri per la liquidazione del danno da mobbing
Danno patrimoniale: come danno da dequalificazione professionale (liquidato con una percentuale della mensilità di retribuzione per ogni mese di demansionamento, oppure in via equitativa) o per illegittimo licenziamento o per dimissioni giustificate sulla base del comportamento illegittimo del datore di lavoro; danno emergente (per le spese mediche sostenute a causa della malattia); danno da lucro cessante (per la ridotta capacità di produrre reddito o per la perdita di chances)
Danno biologico: come danno psichico per la violazione dell’integrità psico-fisica del lavoratore (si applicheranno le tabelle Inail per infortunio sul lavoro) e morale (liquidato in una percentuale del danno biologico)
Danno esistenziale: liquidato in via equitativa
Autore: di Gianfranco Di Rago
Fonte: Lavoro Oggi, ItaliaOggi Novembre 2003