SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 21 ottobre 2013, n. 23772
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIDIRI Guido – Presidente –
Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –
Dott. D’ANTONIO Enrica – rel. Consigliere –
Dott. MANNA Antonio – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 11700/2009 proposto da:
EQUITALIA POLIS S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 326, presso lo studio degli avvocati SCOGNAMIGLIO RENATO e SCOGNAMIGLIO CLAUDIO che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso MARCO GARDIN, rappresentato e difeso dall’avvocato LOPARDI STEFANO, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 97/2009 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 09/02/2009 r.g.n. 1040/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/05/2013 dal Consigliere Dott. ENRICA D’ANTONIO;
udito l’Avvocato VINCENZO PORCELLI per delega RENATO SCOGNAMIGLIO;
udito l’Avvocato LOPARDI STEFANO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 9 febbraio 2009 la Corte d’Appello di L’Aquila,in riforma della sentenza del Tribunale di Teramo, ha condannato Equitalia Polis a pagare al dipendente P.A., adibito a mansioni di messo notificatore, Euro 200.000 a titolo di risarcimento del danno biologico e morale in conseguenza dell’inadempimento del datore di lavoro agli obblighi derivanti dall’art. 2087 c.c.
La Corte ha esposto che il datore di lavoro aveva richiesto al lavoratore di attestare falsamente di essersi recato presso i contribuenti morosi per effettuare le notifiche senza reperirli; che il P. aveva opposto un rifiuto a tale prassi determinando una reazione di ostilità prevedibile nell’ambiente di lavoro non soltanto da parte del datore di lavoro, ma anche di tutti i colleghi che si erano adeguati a tale prassi; che ciò aveva determinato una situazione di grave disagio ed isolamento del lavoratore causa di danno che doveva essere risarcito.
La Corte territoriale ha, peraltro, escluso la prova dell’intento persecutorio del datore di lavoro, ma ha affermato comunque la responsabilità dello stesso ai sensi dell’art. 2087 c.c., per non avere posto riparo al pregiudizio ed al disagio del dipendente, nè provveduto a prevenirlo; che il danno, infatti, avrebbe potuto essere evitato o quantomeno ridotto soltanto se si fossero adottate precauzioni elementari al fine di evitare che si costituisse il clima di ostilità sul posto di lavoro fonte della situazione di grave disagio del lavoratore.
La Corte d’Appello ha, pertanto, concluso affermando la sussistenza di un danno subito dal dipendente, la derivazione di esso da una condizione di severo disagio nel rapporto e nell’ambito lavorativo causata da un comportamento illecito o illegittimo del datore di lavoro in violazione dell’art. 2087 c.c.
Circa le conseguenze dannose sulla salute del lavoratore la Corte ha fatto riferimento alla perizia di parte liquidando in via equitativa l’importo di Euro 200.000 riconoscendo un danno permanente del 30%.
Avverso la sentenza propone ricorso in Cassazione Equitalia Polis formulando due motivi.
Si costituisce P.A. depositando controricorso. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 2087, 2049, 1175 e 1375 c.c., nonchè carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale.
Censura la sentenza nella parte in cui, dopo aver escluso l’esistenza di atti persecutori da parte del datore di lavoro, ha ritenuto che la società avesse violato l’art. 2087 c.c. “per aver omesso precauzioni elementari, coinvolgendo i superiori e i colleghi del dipendente e chiarendo che, salve le ragioni della parte datoriale e fatte salve tutte le possibili obiezioni nei confronti della controparte, comunque, si richiedeva agli altri dipendenti di tenere un comportamento rispettoso nei riguardi dell’appellante e di astenersi da qualsiasi comportamento che potesse influire negativamente per evitare il clima di costante profonda ostilità nei confronti del P.”.
Osserva che la Corte non aveva specificato quali iniziative o comportamenti avrebbe potuto assumere per evitare il contrasto tra la società e l’intero corpo degli ufficiali di riscossione, da un lato, e il P. dall’altro.
Rileva che sarebbe stato ravvisabile un comportamento censurabile qualora il datore di lavoro avesse esercitato pressioni con provvedimenti e comportamenti persecutori, per piegare o tentare di piegare la volontà del P. ad aderire alla prassi da questo ritenuto illegittima, ma nulla di simile era risultato provato.
Denuncia la contraddizione della sentenza là dove afferma che la società non poteva pretendere che il lavoratore eseguisse una prassi da lui ritenuta illegittima, ed allo stesso tempo afferma che neppure il lavoratore poteva pretendere che la datrice di lavoro abbandonasse, contro il suo convincimento,la prassi fino ad allora seguita dichiarandone l’illegittimità.
La censura è infondata.
La Corte d’Appello ha accertato che era stato richiesto al P., nella sua attività di ufficiale di riscossione e di messo notificatore, di attestare falsamente di essersi recato presso la residenza dei notificandi senza reperirli.
La società non nega, e comunque non prova, l’inesistenza del fenomeno costituito, se non proprio da una prassi, dalla presenza di ufficiali notificatori addetti alla riscossione che operavano seguendo l’illegittima procedura denunciata dal P. e che tale comportamento potesse aver determinato un disagio per chi, essendo un lavoratore onesto e non volendosi adeguare a pratiche illegittime, si era venuto a trovare, in qualche modo, a disagio riportando un danno alla salute quale conseguenza di tali condotte, considerato, inoltre, che il P. era stato oggetto di sanzioni disciplinari o delle esternazioni dei colleghi, a cui aveva fatto seguito anche la querela del lavoratore.
Nel ricorso si afferma una sostanziale impossibilità di mutare la procedura di riscossione instaurata in azienda ed, anzi, si sollevano, addirittura dubbi sull’effettiva illegittimità di tali prassi.
La Corte d’Appello ha, invece, sottolineato che l’agenzia nulla aveva fatto per evitare che all’interno dei luoghi di lavoro si formasse tale prassi illegittima e, dopo aver rilevato che il rifiuto del P. di adeguarsi a tali condotte illegittime era doveroso, ha sottolineato la gravità del comportamento del datore di lavoro concretantesi nella falsità delle dichiarazioni che si pretendeva dagli agenti alla riscossione oltre che nell’illegittimo lucro da parte di questi ultimi del compenso pur in assenza del compimento dell’attività notificatoria.
La sentenza della Corte d’Appello è, pertanto, sul punto correttamente motivata e rispettosa dei principi giuridici applicabili alla fattispecie nella parte in cui ha ravvisato la violazione dell’art. 2087 c.c., per aver la società omesso di adottare precauzioni al fine di evitare o ridurre lo stato di disagio, le manifestazioni di ostilità e l’isolamento del lavoratore determinato dal fatto che aveva manifestato il suo dissenso alla prassi aziendale, del tutto illegittima, di accertare l’irreperibilità dei destinatali delle notifiche attestando falsamente di essersi recato presso i contribuenti. In altri termini, la ricorrente non ha fornito la prova, pur essendo a suo carico il relativo onere, di avere fatto tutto il possibile per impedire diffusi e ripetuti comportamenti illegittimi da parte dei suoi dipendenti e per evitare condotte censurabili e gravi – capaci sinanche di divenire “prassi” – suscettibili per le loro modalità attuative di incidere sulla stessa integrità psico-fisica di chi a tale condotta intendeva opporsi.
Ne consegue, quindi, che correttamente, come già detto, la Corte territoriale ha ritenuto che si fosse attuato una violazione del disposto dell’art. 2087 c.c., perchè – è bene ricordarlo – la giurisprudenza di legittimità ha più volte ribadito che la suddetta norma codicistica debba trovare applicazione a fronte di condotte illegittime di datori di lavoro che arrechino danni non solo sulla integrità fisica dei propri dipendenti ma anche su quella psichica (per riferimenti conferenti alla fattispecie in esame cfr da ultimo Cass. 17/4/2013 n. 92490 ed ancora Cass. 11/4/2013 n 8855).
Principi questi che è evidente debbano trovare applicazione pure allorquando si sia in presenza di datori di lavoro che sono chiamati a spiegare servizi – come quello assolto dalla società ricorrente – di rilevante interesse per la collettività.
Per concludere il primo motivo del ricorso va ritenuto inammissibile quando con esso si tenta una rivisitazione delle risultanze processuali, non ammissibile in questa sede di legittimità, ed infondato quando, invece, censura la decisione del giudice d’appello, per essere la stessa supportata da un iter motivazionale rispettoso dei principi giuridici applicabili alla materia in esame. Ne consegue il suo rigetto.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1223, 1175, 1375, 1218, 1225, 1226 e 2729 c.c., nonchè carenza di motivazione su un punto essenziale.
Censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto che l’affermata omissione ad un suo obbligo di comportamento potesse aver cagionato un danno al lavoratore.
Rileva che la risarcibilità dei danni sussiste solo quando vi sia un nesso di causalità necessaria per cui il danno sia una conseguenza esclusiva dell’inadempimento e dell’illecito secondo il principio della regolarità causale; tutti gli antecedenti in mancanza dei quali l’effetto dannoso non si sarebbe verificato devono considerarsi sue cause salvo il caso in cui la causa prossima sia sufficiente a produrre l’evento da sola e per escludere che un tatto abbia concorso a cagionare un danno, occorre dimostrare, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente.
Lamenta che mancava la stessa prova del danno che non può farsi consistere in uno stato di disagio ritenuto grave dalla sentenza senza alcuna dimostrazione o un clima di ostilità anch’esso vago o generico. Contesta la quantificazione del danno come effettuata dalla Corte.
Il motivo è fondato.
La Corte territoriale ha omesso un’adeguata disamina della prova del danno alla salute e della sua quantificazione,oltre che del nesso di causalità con il comportamento illegittimo denunciato.
Deve rilevarsi, infatti, che tale accertata illegittimità del comportamento del datore di lavoro non necessariamente è fonte del danno alla salute lamentato dal lavoratore.
La Corte d’appello ha affermato che il danno e la sua entità risultavano da una perizia di parte e da documentazione medica di cui, tuttavia, non riporta neppure gli elementi fondamentali rilevanti ai fini del decidere restando genericamente indicata la malattia sofferta dal lavoratore, oltre che la sua quantificazione.
La Corte per di più ha quantificato il danno nell’ingente importo di Euro 200.000,00 senza specificare in modo congruo ed esauriente le ragioni poste a sostegno di detta quantificazione.
Le considerazioni che precedono impongono l’accoglimento del ricorso in relazione a detto motivo con la conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio,anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso ed accoglie il secondo;
cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia,anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Roma.
Così deciso in Roma, il 16 maggio 2013.
Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 201