In assenza, nel nostro ordinamento, di una definizione legislativa del fenomeno, la giurisprudenza, soprattutto di merito, che, invece si è misurata con il problema di dare una perimetrazione concettuale alla figura, concorda nell’affermazione che con il termine mobbing si intende far riferimento ad una serie di comportamenti violenti e prolungati nel tempo a danno della dignità personale e professionale di un qualsiasi lavoratore, nonché pregiudizievoli della sua salute psicofisica, perpetrati attraverso abusi psicologici, angherie, vessazioni, atti di demansionamento, emarginazione, umiliazione, maldicenze e così via (elemento materiale) e posti in essere con sciente volontà (elemento psicologico) da superiori e/o da colleghi in sede lavorativa.
La possibilità di configurare detto istituto è stata, a partire dall’anno 2003, sancita anche dalla Corte Costituzionale [1] la quale ha posto nel dovuto risalto come il mobbing sia situazione fatta valere tanto con riferimento al diritto interno [2] che con riguardo all’ ordinamento comunitario [3].
Per il Giudice delle leggi, la disciplina dell’istituto, considerata sia nel complesso del suo assetto, sia sotto lo spaccato delle regolazione degli effetti, è finalizzata a tutelare, sul luogo di lavoro, la dignità ed i diritti fondamentali del lavoratore.
Ne consegue che il mobbing – che, ictu oculi, si presenta come momento di contrasto con alcuni precetti costituzionali [4], fra i quali particolare e pregnante rilievo assume il contrasto con il principio di tutela della salute sancito dall’art. 32 della Carta – si configura come anomala situazione lavorativa, caratterizzata da conflittualità sistematica persistente ed in costante progresso, attuata mediante azioni a rilevante contenuto persecutorio espresse da uno o più aggressori in posizione non necessariamente di supremazia gerarchica; attività che, pur non configurando necessariamente ipotesi di reato, o, se considerate singolarmente, situazioni di illegittimità provvedimentale, tuttavia ,per la loro complessiva capacità di plurioffendere il destinatario, producono, nel contesto mobbizzante considerato, in capo ai soggetti che subiscono siffatte attenzioni, condizioni di particolare valore molesto e finalità persecutorie tali da determinare situazioni di danneggiamento in grado di incidere ,con serie conseguenze, sul patrimonio della vittima, sulla sua salute, sulla sua esistenza.
La figura del mobbing, così come delineata dalla Corte Costituzionale, è stata assunta anche dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, a sua volta, ha sottolineato come l’istituto abbia ad oggetto pratiche vessatorie e persecutorie a carattere sistematico e protratte nel tempo attraverso comportamenti materiali o provvedimentali, posti in essere volontariamente da uno o più soggetti, al fine di danneggiare il lavoratore nel suo ambiente di lavoro. [5]
Di fronte a siffatti, scienti, preordinati, plurimi momenti di aggressione, il c.d. mobbizzato, il più delle volte, si viene a trovare nella impossibilità di poter reagire adeguatamente all’insulto, sicché, nel tempo, si possono determinare a suo danno non indifferenti disturbi psicosomatici, relazionali e dell’umore, che possono provocare forme di invalidità psicofisica, anche permanente e di vario genere e percentualizzazione.
Il protrarsi ininterrotto nel tempo – e segnatamente, secondo la medicina del lavoro, per un periodo considerato almeno non inferiore ai sei mesi – di simili aggressioni di tipo comportamentale e/o provvedimentale, generano, nello svolgersi del loro insieme, il paradigma dell’ingiustizia del danno, inteso quest’ultimo nel senso di evento lesivo non previsto né giustificato da alcuna norma dell’ordinamento giuridico, all’unico scopo di indurre la vittima a sentirsi emarginata ,sino al punto, a volte, da a rinunciare volontariamente al posto di lavoro, senza quindi ricorrere al licenziamento (che potrebbe dar luogo a non poco imbarazzo nel datore di lavoro); ciò che si ripete , peraltro, nelle ipotesi di ritorsione per dei comportamenti non condivisi da chi pratica il mobbing a seguito, ad esempio, di una denuncia sporta in precedenza dal mobbizzato ai superiori gerarchici, o anche all’esterno, per irregolarità riscontrate sul posto di lavoro, o, ancora, per il rifiuto della vittima di soggiacere a proposte o richieste immorali di tipo sessuale o di esecuzione di attività contrarie ai principi dell’etica e della deontologia, o, addirittura anche illegali.
Siffatto fenomeno si è espresso, estendendosi a macchia di leopardo, in misura di sempre maggior frequenza, nella materia del pubblico impiego ,soprattutto con riferimento al campo delle autonomie locali di cui da qui a poco si dirà ed al settore della sanità, quest’ultimo inciso da leggi di riforma che hanno delineato poteri decisionali caratterizzati da una discrezionalità tale – in particolare nei rapporti tra personale medico e paramedico ed in quelli fra struttura apicale e dirigenza generale – da determinare forme di vero e proprio arbitrio, fra l’altro, difficilmente sindacabili anche davanti all’Autorità giudiziaria.
Infatti, le normative correlate a siffatti ricordati ambiti di pubblico impiego costituiscono un humus particolarmente favorevole allo sviluppo del fenomeno, che in tali situazioni disciplinari, si connota con caratteristiche in parte diverse da quelle usualmente proprie del lavoro privato, quali quelle concretizzatesi in immotivati avanzamenti di carriera.
Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, la pratica del mobbing consiste nella proposizione di attività vessatorie – correlate ad indiscutibili e verificati comportamenti omissivi della P.A – da parte del dipendente in posizione gerarchica superiore o del collega di lavoro con vari metodi di violenza psicologica,quando non anche fisica.
Per tutti, l’esempio della sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, della riduzione del ruolo e della funzione posseduta a compiti di banale o scarso livello (fare fotocopie, prendere telefonate, attività dequalificanti e di scarsa autonomia decisionale, ecc.) in modo tale da rendere umiliante il prosieguo del lavoro medesimo; rimproveri e richiami espressi in pubblico ed in privato anche per delle mere banalità; fornire la vittima di mezzi di lavoro inadeguati e di scarsa qualità, di arredi fatiscenti; sistemare il mobbizzato in ambienti non idonei, poco riscaldati e/o male illuminati; non consentire alla vittima di accedere al flusso di informazioni necessarie all’espletamento dell’attività (restrizioni nell’accesso ad internet o alle caselle di posta elettronica).
In buona sostanza, mettere in atto un sistematico e preordinato processo di cancellazione del mobbizzato, condotto con la progressiva preclusione dei mezzi e delle relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento della normale attività lavorativa.
Il tutto con la perversa finalità di mettere in campo, da parte del mobber, una complessiva ed ostile attività allo scopo di demansionare il lavoratore, isolarlo ed obbligarlo al trasferimento o alle dimissioni.
Ai fini che interessano alla nostra indagine , non appare inutile riferire che in forza della introduzione delle logiche privatistiche – che hanno fortemente attenuato e condizionato il ruolo, in precedenza affidato ai principi di legittimità e di legalità dell’azione amministrativa, sull’altare del mito di un efficientismo più supposto che reale, e che, comunque, non va mai inteso come situazione opposta ai ricordati canoni di legittimità e di legalità, giusta quanto risulta evidente dalla lettura dell’art. 97 della Carta che fa espresso riferimento “al buon andamento delle P.A.” – nell’ambito dell’organizzazione e del funzionamento delle Amministrazioni previste dal D.Lgs. n° 165/01, appare di tutta evidenza che il fenomeno in parola è destinato a crescere in maniera esponenziale ,con particolar
e riguardo al c.d. mobbing verticale, esercitabile da chi si trova in posizione di supremazia gerarchica.
Tale forma di mobbing trova terreno fertile soprattutto con riferimento alla nuova configurazione delle funzioni e dei poteri della dirigenza pubblica, che espleta le proprie funzioni di autonomia nella gestione ed organizzazione del personale e nella gestione dei rapporti di lavoro (art. 16, 1° comma, lett. h del D.Lgs. n° 165/01) unitamente, in forza dell’art. 19 del ricordato D.Lgs. n° 165/01, con la possibilità, per l’organo politico, di attribuire l’incarico della funzione dirigenziale a persona esterna alla P.A., indipendentemente e non tenendo in alcun conto i curricula e l’anzianità di servizio, posseduti da altri aspiranti a quella funzione provenienti dai ruoli della Amministrazione.
Nelle descritte situazioni appare di tutta evidenza rilevare come nel superiore gerarchico (dirigente) aumenti, in modo esponenziale l’idoneità di incidere, con decisioni a carattere organizzativo, sulla sfera individuale del lavoratore.
A tutto questo aggiungasi che la fine del mansionismo e delle rigidità strutturali ed organizzative delle P.A., nonché l’attenuazione delle sopra ricordate regole di stretta legalità nella gestione delle risorse in favore del canone del risultato, vanno interpretate come cause strutturali potenzialmente idonee ad incrementare il mobbing.
Del resto oggi il dirigente pubblico risulta ex lege (art. 16, 1° comma, lett. h ed art. 17, 1° comma, lett. e del D.Lgs. n° 165/01) attributario di compiti e funzioni di organizzazione e gestione del personale, sicché non appare revocabile in dubbio che lo stesso, goda, proprio nell’organizzazione degli uffici e nelle misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro, di poteri e capacità del tutto simili a quelli dell’imprenditore privato,e, in quanto tale, figura assoggettata alle disposizioni dell’art. 2087 del c.c., con la conseguenza di essere tenuto ad adottare, nell’esercizio delle sue prerogative dirigenziali, tutte quelle misure che, in relazione al ruolo rivestito ed alla tipologia del lavoro preso in considerazione, si connotano come indispensabili per la tutela dell’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore pubblico.
In siffatta cornice concettuale, il problema del riparto della giurisdizione, e, quindi, la questione dell’attribuzione della competenza a decidere sul mobbing in capo al giudice amministrativo, non può prescindere dall’esame della situazione rappresentata da tutte quelle ipotesi che riguardano il pubblico impiego non privatizzato.
Nelle circostanze in cui si faccia valere una responsabilità di tipo contrattuale e le vessazioni si traducano in atti di demasionamento o in provvedimenti anche disciplinari illegittimi, la giurisprudenza amministrativa [6] conclude nel senso di affermare che sulla proposta risarcitoria per lesione di interessi legittimi – che, peraltro,può essere avanzata anche senza essere preceduta, entro gli ordinari termini di prescrizione quinquennale, dalla previa impugnazione dell’atto lesivo – il sindacato giurisdizionale spetti al Giudice Amministrativo.
Con riferimento alle fattispecie di mobbing nei rapporti di pubblico impiego non privatizzato, la giurisprudenza [7] ha reiteratamente statuito che, in questo settore, risulta, di norma, più facile la tutela della potenziale vittima del mobbing, considerata l’obiettiva evidenza che i poteri datoriali sono riferiti all’esercizio di poteri autoritativi preordinati al conseguimento del pubblico interesse, ai quali vanno applicate le norme che procedimentalizzano le scelte delle Amministrazioni Pubbliche, con l’ovvia conseguenza che il sindacato del Giudice Amministrativo risulta più agevole in considerazione della funzionalizzazione degli atti di interesse pubblico, piuttosto che al più, invero, difficilmente identificabile interesse dell’Azienda.
Nel quadro così delineato, a differenza del Giudice Ordinario, che risulta competente a decidere sulle azioni di risarcimento del danno al dipendente ,incentrate sulla responsabilità extracontrattuale della P.A., non appare revocabile in dubbio che sussista, in tutta la sua pienezza, la competenza del Giudice Amministrativo, con riguardo alle ipotesi di violazione del rapporto contrattuale, in cui la domanda risarcitoria – a seguito di comportamenti omissivi o commissivi della P.A. medesima che facciano venir meno l’obbligo specifico postulato dall’art. 2087 del c.c.,traslativo, in ambito contrattuale, del generale principio del neminem laedere – fonda la sua ragion d’essere sulla rilevazione della inosservanza (inadempimento) di obblighi relativi al pubblico impiego, ivi compresi quelli di violazione dei doveri di imparzialità e di buona amministrazione, i quali vincolano la P.A. medesima, nel suo operare, ad adottare tutte le misure idonee e necessarie a tutelare l’integrità psicofisica e morale del lavoratore.
Egli, per l’effetto, una volta esentato dall’onere di dimostrare il dolo o la colpa della P.A. datrice di lavoro, è tenuto unicamente al dovere di provare la lesione dell’integrità psicofisica intervenuta ed il rapporto causale tra il comportamento datoriale ed il pregiudizio alla salute determinatosi.
Non è inutile, ancora, ricordare che in tema di mobbing la competenza appartiene al Giudice Amministrativo, non soltanto nell’ipotesi in cui la domanda di risarcimento sia espressamente fondata sulla inosservanza da parte della P.A. di una specificao rapporto obbligatorio [8], ma anche allorquando responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale si ravvisino, per così dire, come coacervate; ciò, oggettivamente, si verifica in tutte le circostanze in cui risulti evidente che il rapporto di lavoro non costituisca mera occasione per l’esercizio della condotta ostile da parte di colleghi o superiori del dipendente pubblico, e nelle quali la P.A., pur consapevole di siffatta impropria, sistematica, strumentale e perdurante condotta a danno del mobizzato, nulla faccia e non intervenga per far cessare la riferita condotta ostile, incorrendo così in culpa in vigilando.
Pertanto, il Giudice Amministrativo, una volta constatati la sussistenza della molteplicità delle azioni a carattere intenzionalmente persecutorio e vessatorio, l’evento lesivo per la salute e la personalità del dipendente, il nesso eziologico tra la condotta del mobber ed il pregiudizio dell’integrità psicofisica del mobbizzato, deve determinarsi – in assenza di prova da parte della P.A. di essersi adoperata per attivare tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità psicofisica del dipendente, o anche nelle ipotesi in cui risulti che l’Amministrazione abbia agito (in senso omissivo o commissivo, poco importa) in violazione dei principi di buona fede e correttezza nella gestione dei rapporti di lavoro, o anche quando abbia contravvenuto all’obbligo costituzionale di tenere condotte conformi all’obbligo postulato dai principi di imparzialità e buona amministrazione – nel senso di tenere in debita considerazione detti comportamenti al fine di consentire il sindacato sulla sussistenza o meno dello elemento soggettivo in capo all’Amministrazione, in forza del combinato disposto degli artt. 2087, 1218 e 1288 c.c. e dell’art. 2049, per ciò che attiene alla responsabilità extracontrattuale.
La condanna per mobbing, segnatamente per accertato danno biologico, nell’esaminata ipotesi di pubblico impiego non privatizzato, ha anche l’effetto di determinare ulteriori e non secondarie conseguenze, considerato che il mobber può ben essere chiamato a rispondere, davanti alla Corte dei Conti per procurato danno erariale.
Ciò significa che, per l’effetto, la P.A. ben può rivalersi, azionando apposito giudizio davanti alla Corte dei Conti, nei confronti dell’amministratore o del dipendente pubblico che abbia procurato, in sede civile, con il suo non corretto comportamento, la condanna di
essa Amministrazione al risarcimento del danno a favore del dipendente mobizzato.
Come è noto, in forza dell’art.103 della Costituzione, la Corte dei Conti ha generale competenza nelle materie di contabilità pubblica.
Ad essa competono sentenze di condanne patrimoniali a carico della P.A. e vanno comunicate le denunce di ingiustificata lesione del patrimonio pubblico.
A seguito di detto invio la Procura Regionale presso la Sezione giurisdizionale regionale, competente per territorio, diventa il soggetto magistratuale titolare esclusivo dell’azione risarcitoria, la quale va attivata nel termine prescrizionale di cinque anni dal verificarsi dell’evento dannoso.
Inoltre,occorre ricordare come la responsabilità amministrativo-contabile consegua a qualsiasi lesione intervenuta a carico del patrimonio dello Stato e degli altri Enti pubblici ,a seguito di azioni od omissioni prodotte da soggetti inseriti nell’apparato statale o pubblico e che agiscono per conto di una P.A..
Il danno qualificato come erariale, quindi, per sussistere, deve essere: a) certo (il danno deve essersi verificato in tutti i suoi elementi); b) attuale (lo stesso deve sussistere tanto al momento della proposizione della domanda che a quello della decisione); c) concreto (la perdita deve essersi materialmente realizzata); d) determinato (la perdita deve essere quantificata o quantificabile secondo i principi propri del codice civile).
Il danno erariale, poi, è qualificato diretto, quando lo stesso sia causato ab ovo alla P.A., ovvero indiretto, nelle ipotesi in cui il danno cagionato originariamente nei confronti di terzi, si rifletta, a seguito di pronuncia giurisdizionale di tipo risarcitorio, a carico della P.A..
Nel caso del mobbing, il danno cagionato, che determina la condanna, da parte del giudice contabile, della P.A. al risarcimento in favore del privato, sanzionato a seguito dell’esperimento dell’azione di rivalsa condotta nei confronti del dipendente pubblico, si configura come ipotesi di danno indiretto, in modo che in tali vicende di mobbing, sostanziandosi le medesime in un danno conseguente ad una sentenza, il termine per l’attivazione dell’azione risarcitoria può ben iniziare a decorrere anche dopo molti anni dal sostanziarsi del fatto integrante gli estremi della fattispecie di mobbing.
Va, altresì, rilevato che la sentenza di condanna nei confronti del mobber, riguarda anche la P.A,. cui appartiene l’agente medesimo, in forza del principio della solidarietà nella responsabilità con il proprio dipendente postulata dall’art. 28 della Costituzione, anche nelle ipotesi di situazioni che siano riconducibili a regole di servizio della P.A..
Inoltre,va espressamente evidenziato come, in astratto, non si possa escludere la sussistenza di situazioni mobbizzanti anche in presenza di modelli organizzativi e regole di servizio della P.A. vigenti ma non più conformi all’evoluzione intervenuta nella coscienza sociale.
In ragione delle pregresse considerazioni svolte, il dipendente condannato per aver realizzato il comportamento vessatorio,produttivo di danno, ed i correlati importi corrisposti sostanziano senza alcun dubbio, a loro volta, ipotesi di danno erariale, visto che si sostanziano negli esborsi che l’Amministrazione è, comunque, obbligata a corrispondere, in virtù di una “ingiusta lesione di un interesse economicamente valutabile di pertinenza della P.A.” (Cass. SS.UU. 4.1.1980 n° 2).
Al verificarsi di tale evenienza la Corte dei Conti, quindi, può intervenire – mediante esercizio di doverosa azione di regresso che, in realtà è un’azione obbligatoria e pubblica tesa, finalizzata alla compiuta reintegrazione del patrimonio della Amministrazione – per il recupero, nei confronti dell’autore del fatto illecito dannoso, delle somme che la P.A. è stata costretta a sborsare a causa della condotta sanzionata del proprio dipendente.
La Corte dei Conti è, quindi, abilitata, (rectius: necessitatamente obbligata) ad agire nei confronti dell’autore del fatto illecito dannoso per il recupero delle somme che la P.A. abbia corrisposte al mobbizzato per il fatto illecito dannoso determinato dall’impropria condotta del proprio dipendente.
E’ importante comprendere, dunque, che nell’azione di rivalsa il giudice contabile deve – ai fini dell’accertamento della responsabilità – individuare il dolo o la colpa grave dell’agente pubblico e valutare il vantaggio comunque conseguito dall’Amministrazione con il comportamento, pur per altri versi dannoso, tenuto dal dipendente.
In buona sostanza, il Giudice contabile deve ricercare la colpa grave dell’agente pubblico e valutare il vantaggio comunque conseguito dall’Amministrazione, o dalla comunità di riferimento con il comportamento, pur per altri versi dannoso, tenuto dal medesimo agente, senza escludere, però, che il Giudice contabile possa giungere a conclusioni e, quindi, a pronunce altre e diverse rispetto al Giudice, Ordinario o Amministrativo che sia, ovviamente motivando puntualmente ed adeguatamente le proprie scelte [9].
Si può, dunque, affermare, che la Magistratura contabile – in ossequio al principio secondo il quale chi produce un danno all’Erario è tenuto a risarcire lo stesso di tasca propria -, attraverso l’esercizio dell’azione risarcitoria nei confronti di chi abbia posto in essere comportamenti mobbistici causativi di danno per un Ente pubblico, può validamente concorrere alla repressione di siffatte deplorevoli condotte.
Il tutto indipendentemente dalla valutazione dell’opportunità dell’applicazione, da parte del giudice contabile, del potere riduttivo di cui egli risulta atttributario.
Va, infine, posto nel dovuto risalto che si possa giungere a sanzionare come mobbing anche il caso di accertata responsabilità dirigenziale dovuta a non corretta gestione delle risorse umane ex art. 21 del D.Lgs. n° 165/01.
Infatti, come noto, la riscontrata cattiva gestione delle risorse umane rientra nella più generale categoria dei risultati dell’attività amministrativa e dell’attività di gestione riconnessa alla funzione dirigenziale, che ,come tale, può determinare l’applicazione di non secondarie conseguenze di tipo ordinamentale riscontrabili nel mancato conferimento della retribuzione di risultato, nella revoca del’incarico dirigenziale e nella destinazione ad altra funzione.
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[1] Corte Cost. 19.12.2003 n° 359; Corte Cost. 25.3 – 6.4. 2004 n° 113; Corte Cost. 27.1.2006; Corte Cost. 22.6.2006 n° 238 e n° 239.
[2] D.P.R. 22.4.2003, punto 4.9 di approvazione Piano Sanitario Nazionale 2003-2005; punto BS11 della delibera 22.5.2003 (accordo tra Min. Salute, Regioni, Province Autonome etc).
[3] Risoluzione Parlamento Europeo del 21.9.2000 (AS-0283/01, punto 13).
[4] Carta Costituzionale artt. 2, 3, 1° comma, 35 e 41.
[5] Cass. SS.UU. 4.5.2004 n° 8438; Cass. Lav. 23.5.2003 n° 6326; Cass. Lav. 29.5.2005 n° 19053; Cass. Lav. 6.3.2006 n° 4774.
[6] Cfr TAR Lazio, I^ quater 17.4.2007 n° 3315.
[7] Cfr. ex plurimis TAR Liguria 12.3.2003 n° 302; TAR Veneto 8.1.2004 n° 2; TAR Puglia, Sez. Lecce, n°3001/05.
[8] Cfr. ex multis Cass. SS.UU. 11.7.2001 n° 9385; idem 25.7.2002 n° 10956; idem 5.8.2002 n° 11756; idem 2.7.2004 n° 12137.
[9] Corte dei Conti, Sez. III 25.10.2005 n° 623.
di Davide Prinari
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