Mobbing e risarcimento del danno del lavoratore

(Saggio di Stefano Spinelli)

Il mobbing può essere definito una forma di terrore e di violenza psicologica che si realizza deliberatamente e reiteratamente nei luoghi di lavoro nei confronti della vittima individuata, il lavoratore, da parte del datore di lavoro, dei superiori gerarchici o dei colleghi. Come è noto, il fenomeno è stato studiato e teorizzato dal dott. Heinz Leymann, psicologo tedesco emigrato in Svezia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, e adattato alla situazione del mondo del lavoro in Italia dal dott. Harald Ege nel corso degli anni Novanta. Se da una parte è possibile affermare che un “fisiologico” conflitto, nel mondo del lavoro, tra impresa e lavoratore è sempre esistito e sempre esisterà, dall’altra parte è necessario sottolineare che non ogni conflitto rientra nel fenomeno mobbing, dovendosi pertanto rifuggire facili generalizzazioni (“tutto è mobbing, niente è mobbing”, con le parole del Giudice dott. Sorgi del Tribunale di Forlì, Sezione di Lavoro, estensore di una delle prime e più rilevanti pronunce sul tema), pericolose tanto per i lavoratori quanto per gli operatori del diritto. È necessario quindi evitare il rischio di idealizzare tale concetto come rimedio per tutti i mali della vita relazionale che si presentino in ambito lavorativo, ma anche il rischio di farvi rientrare aspetti deformanti della relazione lavorativa che siano già forniti di idonea sanzione prevista dall’ordinamento (quali ad esempio dequalificazioni, trasferimenti illegittimi, licenziamenti ingiustificati, violenze, lesioni…)…. (Avv. Stefano Spinelli – Persona e danno)

LaPrevidenza.it, 23/06/2006                              

 

Mobbing e risarcimento del danno del lavoratore
 

(Avv. Stefano Spinelli)

 

1) Il fenomeno giuridico mobbing.
 

Il mobbing può essere definito una forma di terrore e di violenza psicologica che si realizza deliberatamente e reiteratamente nei luoghi di lavoro nei confronti della vittima individuata, il lavoratore, da parte del datore di lavoro, dei superiori gerarchici o dei colleghi. Come è noto, il fenomeno è stato studiato e teorizzato dal dott. Heinz Leymann, psicologo tedesco emigrato in Svezia, a partire dalla metà degli anni Ottanta, e adattato alla situazione del mondo del lavoro in Italia dal dott. Harald Ege nel corso degli anni Novanta.

Se da una parte è possibile affermare che un “fisiologico” conflitto, nel mondo del lavoro,  tra impresa e lavoratore è sempre esistito e sempre esisterà, dall’altra parte è necessario sottolineare che non ogni conflitto rientra nel fenomeno mobbing, dovendosi pertanto rifuggire facili generalizzazioni (“tutto è mobbing, niente è mobbing”, con le parole del Giudice dott. Sorgi del Tribunale di Forlì, Sezione di Lavoro, estensore di una delle prime e più rilevanti pronunce sul tema), pericolose tanto per i lavoratori quanto per gli operatori del diritto. È necessario quindi evitare il rischio di idealizzare tale concetto come rimedio per tutti i mali della vita relazionale che si presentino in ambito lavorativo, ma anche il rischio di farvi rientrare aspetti deformanti della relazione lavorativa che siano già forniti di idonea sanzione prevista dall’ordinamento (quali ad esempio dequalificazioni, trasferimenti illegittimi, licenziamenti ingiustificati, violenze, lesioni…).

Eliminati i rischi suddetti, emerge finalmente la potenzialità e l’importanza della figura del mobbing, perché:

a) consente di sanzionare comportamenti del datore di lavoro che altrimenti non sarebbero contestabili dal dipendente, in quanto non rilevanti singolarmente o per i quali l’ordinamento non prevede alcuna tutela;

b) consente di recuperare a tutela fatti lesivi “scaduti”, ovvero risalenti nel tempo, i quali possono essere valutati non come fotografie isolate, ma come fotogrammi del più complesso fenomeno mobbing, ricostruendo così la storia lavorativa del dipendente a dimostrazione di una vicenda persecutoria;

c) consente di risarcire danni alla salute psicofisica altrimenti difficilmente risarcibili, perchè attinenti alla sfera esistenziale e della dignità umana del lavoratore.

Circa i comportamenti c.d. mobbizzanti, va detto che esistono comportamenti che possono dirsi “tipici”, perché già espressamente previsti dall’ordinamento come illeciti e contrari a norme legislative e/o contrattuali, e quindi contra legem; ed altri comportamenti “atipici” – di per sé (forse) neutri – che, letti teleologicamente tra loro ed in rapporto ai primi, permettono di ricostruire un quadro vessatorio e persecutorio nei confronti del lavoratore.

Tra i primi, possono ricordarsi a titolo esemplificativo: trasferimento e/o spostamento di posto di lavoro illegittimi e/o ingiustificati; mutamento di mansioni ed altri episodi dequalificanti, in violazione dell’art. 2103 c.c.; licenziamento illegittimo; mancata ottemperanza da parte del datore di lavoro di richieste di motivi formulati per iscritto, in violazione delle norme contrattuali; illegittime sanzioni disciplinari; mutamenti di sede senza rispetto dei criteri (anzianità, situazione familiare, di salute) individuati dalla contrattazione collettiva; omissione di ogni provvedimento “cautelativo”, a seguito di esito di visite mediche chieste dal lavoratore; lesioni personali; ingiurie; molestie… Tutti questi fatti possono essere perseguiti in giudizio indipendentemente ed a prescindere dall’esistenza o meno di ipotesi di mobbing. Tuttavia è evidente che essi possono costituire altresì la manifestazione di una situazione persecutoria di più ampia portata.

Tra i comportamenti atipici o neutri, possono ricordarsi: mancato riconoscimento di alcuna promozione e/o aumento di stipendio in precedenza concessi; mancata partecipazione a corsi di formazione ai quali in precedenza si aveva accesso; diminuzione delle qualifiche professionali; privazione di c.d. “benefit” o privilegi prima goduti; pluralità di mutamenti di mansioni in un breve lasso temporale, indipendentemente dal fatto che siano sorretti da reali esigenze di servizio; collocazione (indipendentemente dal fatto se legittima o meno) in posizione sott’ordinata a colleghi con qualifica inferiore e prima sottoordinati, o collocazione (non importa se legittima o meno) in posizione equiparata a collega di livello inferiore; trasferimento in posizioni lavorative ristrutturate ad esaurimento (c.d. rami o binari morti); trasferimento di altro collega nel posto ricoperto; mancata risposta alle contestazioni sulle scelte datoriali nei confronti dell’interessato, o all’interessamento delle organizzazioni sindacali; licenziamento per superamento del periodo di comporto, quando la malattia è conseguenza della situazione vissuta in ambiente lavorativo; collocazione in ambiente lavorativo non adeguato alla posizione; isolamento della persona dal contesto lavorativo (ad es. frequenti litigi con i colleghi, silenzio dei colleghi allorché il lavoratore discriminato entra nella stanza, esclusione da feste aziendali o altre attività sociali, continui rifiuti delle proprie proposte di carattere professionale)… L’esperienza offre in questi casi – bisogna dire, purtroppo – una casistica quanto mai ampia! Questi fatti sono di per sé solitamente neutri, non originando una diretta responsabilità datoriale; ma considerati unitariamente e da un punto di vista dinamico rilevano ad integrare e completare la fattispecie di un illecito comportamento vessatorio e persecutorio del datore di lavoro (o dei colleghi) nei confronti del dipendente, qualora assumano – e dovrà essere provato in giudizio – i caratteri della rilevanza in rapporto all’aggressione effettuata, della sistematicità e della reiterazione nel tempo; qualora cioè siano idonei a determinare una lesione psicofisica ne
l dipendente causalmente riferibile alla situazione vissuta nell’ambiente lavorativo. Al riguardo anche la Corte di Cassazione ha ormai accolto il principio per cui, alle condizioni appena enunciate, anche un comportamento astrattamente lecito può essere fonte di risarcimento del danno, per violazione della norma di chiusura di cui all’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del lavoratore, e degli obblighi generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. (Cass. civ., 19.1.1999 n. 475).

Al fine di valutare l’idoneità dei comportamenti persecutori, soprattutto atipici, a produrre una lesione psicofisica al lavoratore, secondo i criteri della rilevanza, della sistematicità e della reiterazione sopra menzionati, potrà farsi ricorso agli strumenti tratti dalla psicologia internazionale del lavoro (“il test di mobbing LIPT modificato Ege”, test elaborato da Leymann e riadattato da Ege alla realtà italiana), che individua come parametri di riconoscimento del mobbing i sette seguenti: ambiente in cui si svolge il conflitto; frequenza delle azioni ostili; durata; tipo di azioni; dislivello degli antagonisti; andamento secondo fasi successive (le sei fasi del modello Ege); intento persecutorio.

 

 

2) Mobbing e danno.

 

Individuati, pur nella genericità che la sintesi richiede, gli elementi caratteristici del mobbing, ci si può addentrare nell’argomento, quanto mai vasto, aperto ed in continua evoluzione, della risarcibilità del danno causato dal mobbing.

Si tratta di un argomento sicuramente controverso, a causa della complessità del danno psichico, della individuazione del nesso di causalità, della quantificazione del danno, della difficoltà per l’operatore di orientarsi sulle voci di danno da risarcire, anche in seguito all’introduzione nel nostro ordinamento della nuova figura del danno esistenziale.

Tuttavia – ci si permetta di considerare preliminarmente – qualsiasi tipo di risarcimento per equivalente, in ipotesi di mobbing, non è in grado di restituire ciò che la vittima ha perduto con la lesione subita, poiché nessuna offesa arrecata ad un diritto della persona può realmente venire cancellata o compensata. Né potrà considerarsi l’ “emergente” danno esistenziale come una voce di danno omnicomprensivo, capace di coprire ogni lesione in astratto rinvenibile, dovendo quindi essere affiancato, se del caso, da altre voci di danno (patrimoniale, morale, biologico…). Al danno esistenziale, dunque, si deve fare ricorso in via equitativa, ex artt. 1226 e 2056 c.c., e “residuale”, quale ipotesi aggiuntiva rispetto alle altre voci risarcitorie.

Illuminante in tal senso è l’affermazione del dott. Ege, per cui “il mobbing è sicuramente una notevole fonte di pregiudizi per chi ne è vittima e non solo di danni biologici in senso ampio, ma anche di peculiari forme di danno che da esso derivano per l’esistenza stessa del soggetto leso” (H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002, pag. 94).

a) Danno biologico.

Come afferma Ege, dal punto di vista medico-legale è ormai opinione diffusa che il mobbizzato può presentare una lunga serie di disturbi, somatizzazioni e vere e proprie malattie che possono protrarsi per un lungo periodo o divenire croniche ed irreversibili, raggiungendo anche quadri clinici di severa gravità. Nella maggior parte dei casi, come emerge dagli studi di settore, “la vittima di mobbing accusa sintomi e malesseri a carico di organi od apparati che sono strettamete legati a patologie psico-somatiche, comunemente derivanti dalla depressione reattiva all’ambiente lavorativo o allo stress occupazionale” (H.Ege, op. cit., pag. 94).

Le lesioni e violazioni subite dal lavoratore alla propria integrità psico-fisica, a prescindere dalla sussistenza di alcun danno di carattere patrimoniale, sono risarcibili quale danno biologico (si veda Corte Cost. n. 184/1986), una volta accertato il rapporto cronologico tra lesione e fatto illecito, nonché il rapporto di adeguatezza, qualitativa e quantitativa, tra danno lamentato e fatto illecito; il risarcimento che ne deriva può essere calcolato secondo i tradizionali criteri in uso nei Tribunali.

b) Danno patrimoniale.

Se è vero che il mobbing può produrre danni alla sfera psico-fisica, è ancor più vero che, anche (ma non solo) in conseguenza di tale lesione, il soggetto mobbizzato ha subito o subirà ripercussioni sulle sue possibilità lavorative future, sia in termini di capacità lavorativa, e quindi di guadagno, sia in termini di prospettive di avanzamento professionale, sia infine in termini di reimpiego in altro contesto lavorativo. Al riguardo, i dati statistici ci soccorrono nell’affermare che “una buona percentuale di lavoratori mobbizzati, in corso o all’esito della vicenda lavorativa di mobbing, si sono visti loro malgrado costretti a dimettersi, o a richiedere la mobilità o il prepensionamento, ovvero in casi estremi ad essere licenziati (soprattutto per eccessiva morbilità): il tutto con serie ed oggettive difficoltà successive per reinserirsi ex novo nel mercato del lavoro, riciclarsi nella propria professionalità ed affrontare la disoccupazione forzata e/o l’arrivo dell’età pensionabile ancora lontana” (H.Ege, op. cit., pag. 95).

Il danno patrimoniale da mobbing si configura quindi, solitamente, come:

– danno da demansionamento o dequalificazione professionale o per perdita di professionalità pregressa (Trib. Torino 30.12.1999, estensore dott. Ciocchetti, avente ad oggetto una fattispecie in cui durante un periodo di malattia di una dipendente, il datore di lavoro assume altra dipendente alla quale affida una posizione di lavoro pressoché sovrapponibile a quella della ricorrente, la quale al suo ritorno in azienda dalla malattia viene assegnata a mansioni diverse che, pure rientrando astrattamente nell’ambito dell’inquadramento di appartenenza, non assicurano la professionalità pregressa): la prevalente giurisprudenza, specie di merito, è orientata al riguardo nel riconoscere una mensilità di retribuzione, o una percentuale della stessa, per ogni mese di demansionamento; la Corte di Cassazione, seguita anche da giudici di merito, frequentemente procede ad una liquidazione in via equitativa ex artt. 1226  e 2056 c.c..;

– danno emergente: spese mediche e cure sostenute a causa della malattia psico-fisica ingenerata dagli attacchi mobbizzanti;

– danno da lucro cessante: riflessi negativi dovuti alla riduzione della capacità di lavoro, e quindi di produrre reddito, o alla perdita di chances;

– danno da licenziamento illegittimo o da dimissioni per giusta causa: risarcimento, nel primo caso, secondo i criteri risarcitori di cui alle leggi n. 300/70, n. 108/90 e n. 604/66, e – in caso di licenziamento caratterizzato da un quid pluris consistente nella particolare offensività, in quanto lesivo del decoro e dell’immagine del lavoratore: c.d. licenziamento ingiurioso – anche una ulteriore indennità risarcitoria per gli ulteriori danni subiti in termini di vita di relazione o perdita di capacità professionale, di cui deve essere fornita la prova (Cass. civ., sez. lav., 13.7.2002 n. 10203; 11.7.2002 n. 10116); nel secondo caso, risarcimento secondo i criteri forniti dagli artt. 2118 e 2119 c.c.;

c) Una considerazione particolare deve essere poi concessa alle voci del danno esistenziale e del danno morale. Ciò perché nelle ipotesi di mobbing ci si trova di fronte prima di tutto ad una lesione della personalità della vittima: “la lesione della salute, soprattutto se il bene «salute» viene inteso nel significato più ristretto di violazione dell’integrità psico-fisica, può avere luogo come invece anche non ricorrere…Ciò che invece è sempre presente è la lesione della sfera morale della personalità, della dignità, di quell’interesse a vedere tutelata la propria personalità morale (art. 2087 c.c.)” (così P.G.Monasteri-M.Bo
na-U.Oliva, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, pagg. 56 e 57).

I) Sotto il profilo del danno esistenziale, la giurisprudenza di merito (in particolare Trib. Forlì, 15.3.2001, est. Dott. Sorgi), sollevando dubbi sulla tradizionale tripartizione danno biologico – danno patrimoniale – danno morale, strumento riduttivo di tutela in quanto lascia sforniti di adeguata copertura spazi oramai troppo ampi, ha riconosciuto il danno psichico da mobbing quale “danno alla vita di relazione, che si realizza ogni qual volta il lavoratore viene aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria”. Ancora: “il danno esistenziale appare particolarmente congeniale” alla situazione del mobbing poiché “è la qualità della vita del lavoratore mobbizzato a risentirne principalmente, con tutte le conseguenza anche nell’ambito familiare (si pensi al doppio mobbing)”. Dove per “doppio mobbing” si intende l’ipotesi in cui il disagio sul lavoro vissuto dal mobbizzato va a minare le relazioni personali all’interno della sua famiglia, che è inizialmente conforto ed appoggio per il lavoratore ma che, a lungo andare, a causa della rabbia, insoddisfazione o depressione trasferita su di essa dalla vittima di mobbing, finisce nei casi più deteriori, per andare in crisi essa stessa. In questi casi, inconsciamente, la vittima di mobbing diventa in ambito familiare una “minaccia” per l’integrità e la salute della famiglia e dei suoi componenti, con inevitabili ripercussioni sulla qualità dei rapporti familiari. “Il doppio mobbing indica la situazione in cui la vittima si viene a trovare in questo caso: sempre bersagliata sul posto di lavoro e per di più privata della comprensione e dell’aiuto della famiglia” (da H. Ege, Cos’è il mobbing?).

La categoria del danno esistenziale ben si sposa quindi con gli effetti devastanti del mobbing, poiché tutela quelle situazioni in cui, anche al di fuori dei casi di malattia fisica e psichica (si veda Trib. Pisa, est. Nisticò, 3.10.2001, in cui si legge: “il danno conseguente alla violazione dell’art. 2087 c.c., per la parte in cui tutela la personalità morale del lavoratore, non corrisponde sempre e solo al c.d. danno biologico, cioè a quel danno che comprometta la capacità di relazionare nella vita civile mediante la causazione di un pregiudizio fisico e psichico”), si possono verificare oggettivi peggioramenti delle condizioni esistenziali della vita di relazione della persona riguardanti diritti primari e costituzionalmente tutelati, e altresì perché consente di sanzionare condotte plurioffensive, vale a dire le cui conseguenze si ripercuotono su vari piani della vita del mobbizzato. Il danno esistenziale quindi consente di superare da una parte la “strettoia” del danno biologico, sussistente solo in presenza di una lesione psico-fisica, e dall’altra la “strettoia” del danno morale, risarcibile solo allorché derivante da un fatto illecito previsto come reato (P.G.Monasteri-M.Bona-U.Oliva, op. cit., pag. 92).

Al riguardo autorevole dottrina ha osservato che la “monetizzazione” dei valori della personalità umana non mortifica la persona bensì contribuisce a fornire una concreta risposta ad elementari istanze di tutela dell’individuo, superando le angustie e strettoie delle regole della medicina legale e del danno biologico e morale (A. Pizzoferrato, Mobbing e danno esistenziale, in Contratto e Impresa, Saggi, 2002).

La liquidazione del danno non potrà che avere luogo, necessariamente, attraverso il ricorso a criteri equitativi, tenendo conto di ogni elemento che consenta di adeguare la somma alle circostanze del caso: la sofferenza della vittima, la durata della condotta illecita, la gravità delle lesioni, lo sconvolgimento della vita della vittima, evitando per contro ogni liquidazione meramente simbolica (P.G.Monasteri-M.Bona-U.Oliva, op. cit., pagg. 97 e 98, con richiamo alla sentenza Trib. Verona, 26.2.1996, in Dir. Informazione e Informatica, 1996, 576).

Dal punto di vista probatorio, importante è poi sottolineare, richiamandosi alla già citata sentenza Trib. Forlì, 15.3.2001, est. Dott. Sorgi, che in quanto ci si muove nell’ambito della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. (da interpretarsi, secondo il recente orientamento della Corte di Cassazione, come “non limitato al rispetto della legislazione in materia di prevenzione degli infortuni”, comportando per il datore “il divieto di porre in essere – direttamente o per mano di sottoposti o collaboratori, al cui controllo egli è tenuto – nell’ambito aziendale, qualsivoglia comportamento lesivo del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore”: Cass. civ., 2.5.2000 n. 5491), spetterà al datore di lavoro, se vuole evitare profili di responsabilità ogni volta che il lavoratore abbia subito un danno esistenziale, dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del lavoratore, al quale al contrario spetterà la prova del nesso causale tra evento lesivo e comportamento datoriale (così anche Cass. civ., 2.5.2000 n. 5491 e 5.2.2000 n. 1307).

II) Sotto il profilo del danno morale (c.d. pretium doloris), devono essere ricompresi il dolore, le sofferenze dell’animo e spirituali, ed i perturbamenti subiti da un individuo in seguito ad un fatto ingiustamente cagionatogli, che sia previsto e punito astrattamente dalla legge come reato (Corte Cost., ordinanza 22.7.1996 e sentenza 27.10.1994 n. 372). È chiaro in tal senso il disposto dell’art. 2059 c.c., come comunemente interpretato in riferimento all’art. 185 del codice penale.

Detto danno viene risarcito attraverso la liquidazione di una somma di denaro (pecunia doloris), che non esclude il risarcimento del danno biologico, del danno patrimoniale e del danno esistenziale, e che sarà determinata nel suo ammontare in via necessariamente equitativa. La prassi giurisprudenziale (e assicurativa, in materia di infortunistica) ha introdotto il noto criterio di collegamento tra danno morale e danno biologico, riconoscendo come risarcimento del danno morale una somma variabile tra il ¼ ed il ½ della somma liquidata come risarcimento del danno biologico, a seconda della entità dello stesso (in tal senso anche Cass. civ., sez. III, 9.1.1998 n. 134). È evidente tuttavia che in questo campo, più che in altri, avrà spazio la discrezionalità del giudice, il quale incontrerà due limiti:

– in primo luogo si dovrà tenere conto di tutti gli elementi della fattispecie (Cass. civ., 11.3.1998 n. 2677; 2.7.1997 n. 5944);

– in secondo luogo si dovrà rispettare l’esigenza di una razionale correlazione tra entità del danno ed equivalente pecuniario, in modo che il quantum non rappresenti un simulacro o una parvenza di risarcimento (Cass. civ., 21.5.1996 n. 4671).

Con sentenza 3.10.2001 il Tribunale di Pisa, est. Nisticò, ad esempio, ha condannato la persona individuata come diretto responsabile dei comportamenti mobbizzanti al risarcimento del danno morale: “poiché la fattispecie esaminata in astratto configura ipotesi delittuosa, sul piano extracontrattuale il solo … – autore del fatto – deve essere condannato al risarcimento dei danni morali che, tenuto conto delle circostanze concrete e della reiteratezza degli episodi, può essere quantificato in L. 15.000.000 (pari alla metà della somma liquidata a titolo di danno esistenziale). Tale risarcimento non può essere posto a carico anche del datore di lavoro, nei cui confronti non è ipotizzabile alcuna violazione di ipotesi penalmente rilevante”.

 

Avv. Stefano Spinelli

 

 

Riferimenti bibliografici e giurisprudenziali:

 

– H. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing, Milano, 2002;

– H. EGE, Cos’è il mobbing, Prima – Associazione Italiana contro Mobbing e Stress Psico-sociale;

– P.G. MONATERI – M. BONA – U. OLIVA, Mobbing. Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000;

– A. PIZZOFERRATO, Mobbing
e danno esistenziale, in Contratto e Impresa, Saggi, 2002;

– L. GRECO, Danno biologico e mobbing nel rapporto di lavoro, da Guida al Lavoro, 2003, n. 2;

– Corte Costituzionale, sentenza n. 186/84;

– Corte Costituzionale, ordinanza 22.7.1996;

– Corte Costituzionale, sentenza 27.10.1994 n. 372;

– Cassazione civile, 19.1.1999 n. 475;

– Cassazione civile, 13.7.2002 n. 10203;

– Cassazione civile, 11.7.2002 n. 10116;

– Cassazione civile, 2.5.2000 n. 5491;

– Cassazione civile, 5.2.2000 n. 1307;

– Cassazione civile, 21.5.1996 n. 4671;

– Cassazione civile,  sez. III, 9.1.1998 n. 134;

– Cassazione civile, 11.3.1998 n. 2677;

– Cassazione civile, 2.7.1997 n. 5944;

– Tribunale Torino, 30.12.1999, est. Dott. Ciocchetti;

– Tribunale Forlì, 15.3.2001, est. Dott. Sorgi;

– Tribunale Pisa, 3.10.2001, est. Dott. Nisticò;

 

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