Tribunale della Spezia, n. 294 dell'1 luglio 2005 (Giudice Fortunato)

art. 21 ccnl comparto Ministeri
Ministeri – malattia del dipendente – art. 21 ccnl comparto Ministeri – superamento del periodo di comporto – fattispecie in cui il fatto patologico è dipeso dal datore di lavoro – diritto alla corresponsione della retribuzione – sussistenza – mobbing – carretistiche e peculiarità – fattispecie riconosciuta dal giudice con ristoro del danno morale, biologico ed esistenziale

 

Il dipendente pubblico in congedo per malattia, nel caso in cui la situazione patologica sia indotta dal datore di lavoro, non rappresenta una ipotesi di aspettativa non retribuita con conservazione del posto di lavoro per diciotto mesi senza diritto alla retribuzione; pertanto, non verificandosi il superamento del periodo di comporto, il dipendente in congedo ha diritto alla corresponsione della retribuzione.

Il mobbing si differenzia da altre figure di illeciti per la sua capacità di unificare in una fattispecie unitaria illecita una pluralità di azioni, atti, comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere neutri ma il cui reale fine dannoso e illecito si apprezza soltanto se letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica  complessiva; quindi, al dipendente che dimostra il nesso causale tra l’evento sofferto ed il comportamento datoriale reiterato ed intenzionalmente contrario all’art. 2087 c.c., spetta il risarcimento del danno morale, biologico ed esistenziale (fattispecie in cui il giudice ha condannato il Ministero della Difesa al risarcimento del danno da mobbing per aver fatto subire alla dipendente un clima di continue vessazioni, ostilità, provocazioni e minacce che le hanno causato delle alterazioni a carico della sfera psichica).

 

 

Tribunale della Spezia, n. 294 dell’1 luglio 2005
 
REPUBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Giudice monocratico del lavoro dottoressa P. Fortunato ha pronunciato la seguente
S  E  N  T  E  N  Z  A
Nelle cause di pubblico impiego riunite iscritte ai numeri 1977/00 – 66901 – 1272/01 – 1500/01 – 45/02 – 224/02 – 449/02 – 689/02 – 915/02 – 1116/02 – 1521/02 – 1522/02 –1981/02 – 755/03 – 948/03 – 1353/03 R.G.L.
Aventi per oggetto: MOBBING E OPPOSIZIONI A DECRETI INGIUNTIVI
PROMOSSA DA
D’A. M.
RICORRENTE
CONTRO
MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro pro tempore,
CONVENUTO
CONCLUSIONI DELLE PARTI
“ I procuratori delle parti si riportano ai loro atti difensivi”

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 5/10/2000 e ritualmente notificato la Signora D’A. M., dipendente civile di ruolo del Ministero della Difesa, in servizio presso il Circolo Sottufficiali della Spezia con qualifica di operatore amministrativo contabile (quinta qualifica funzionale, ora area B, posizione economica B2) svolgente mansioni di segretario economo di suddetto circolo a decorrere dall’11/5/85, conveniva in giudizio davanti al Tribunale della  Spezia – giudice monocratico del lavoro – tale Ministero in persona del Ministro pro-tempore onde ottenere il risarcimento dei danni originati da comportamenti vessatori e prevaricatori posti in essere nei suoi confronti da funzionari civili e militari ad esso preposti.
Lamentava come conseguenza di ciò una crisi ansiosa-depressiva con conseguenti patologie di natura psichica e pregiudizio permanente di natura biologica, morale ed esistenziale.
Nello stesso ricorso veniva rappresentato che lo scopo perseguito dal datore di lavoro attraverso i propri funzionari era quello di “sbarazzarsi” della D’A. perché “colpevole” di aver segnalato irregolarità amministrative/contabili che si perpetravano presso il Circolo Sottufficiali della Spezia.
Si Costituiva i giudizio il Ministero della Difesa in persona del Ministro pro-tempore a ministero dell’Avvocatura dello Stato di Genova che contestava che i fatti lamentati dalla D’A. potessero costituire mobbing.
In pendenza di giudizio, l’Amministrazione della Difesa emetteva in data 13/11/2000 provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro per infermità della ricorrente.
Per tale motivo veniva presentato in corso di causa ricorso d’urgenza ex artt. 669 bis e seguenti c.p.c.. Con memoria del 21/3/201 si costituiva il Ministero convenuto che evidenziava che la risoluzione del contratto di lavoro si sarebbe verificata soltanto nell’eventualità che la presunta invalidità fosse stata confermata dalla Commissione di secondo grado e fosse stato emanato un provvedimento formale di risoluzione del contratto di lavoro.
Con ordinanza in data 3/4/2001 questo giudice, sul presupposto che non di reintegrazione si deve parlare, ma di continuazione di un rapporto che formalmente non è mai cessato poneva l’obbligo in capo al Ministro pro-tempore di emettere con urgenza i provvedimenti economici conseguenti a tale declaratoria.
Ciò nonostante, la ricorrente era costretta ad adire nuovamente l’Autorità giudiziaria chiedendo l’emissione di decreti ingiuntivi per ottenere il pagamento delle mensilità dovute. Contro quasi tutti tali decreti ingiuntivi il Ministero della Difesa proponeva opposizione deducendo che le competenze mensili maturate successivamente alla data del 31/10/2000 non spettavano alla D’A. in quanto la stessa si trovava nella situazione delineata dall’art. 21, comma 2 del C.C.N.L. – Comparto Dipendenti Ministeriali, che prevede la possibilità per il pubblico dipendente di assentarsi per ulteriore periodo di 18 mesi da sommare a quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo, “nell’ipotesi di casi particolarmente gravi, ma senza diritto alla retribuzione”. Successivamente al ricorso in data 4/5/2001 (ex art. 669 octies c.p.c. per la pronuncia di merito) questo giudice provvedeva alla riunione di tale ricorso con quello depositato in data 5/10/2000 (ricorso per mobbing).
Istruita la causa mediante audizione di diversi testimoni ed acquisizione di numerosi documenti, il giudice disponeva C.T.U. medica all’esito della quale emetteva sentenza non definitiva n. 513/2004 condannando parte resistente a corrispondere una provvisionale per euro 57.516,97. All’udienza odierna, riuniti i procedimenti iscritti ai nn. 1977/00 – 669/01-
1272/01 – 1500/01 – 45/02 – 224/02 – 449/02 – 689/02 – 690/02 – 915/02 – 1116/02 – 1521/02 – 1522/02 – 1981/02 – 755/03 – 948/03 – 1353/03 R.G.L., la causa veniva discussa e decisa come da separato dispositivo di cui veniva data immediata lettura in udienza ed a sostegno del quale vengono svolte le seguenti considerazioni.

MOTIVI DELLA DECISIONE

 La signora M. D’A. chiede di essere risarcita dei danni patrimoniali, di carattere biologico, morale ed esistenziale che ricollega ai comportamenti vessatori e prevaricatori posti in essere nei suoi confronti da funzionari civili e militari preposti alla direzione ed alla sorveglianza del Circolo Sottufficiali del Ministero della Difesa della Spezia ove la stessa ha svolto le mansioni di segretario economo per circa 15 anni.
Per valutare se realmente vi sia stata una attività persecutoria nei confronti della ricorrente occorre ricostruire i fatti e verificare se siano stati posti in essere atti e/o comportamenti, anche non autonomamente sanzionabili, ripetuti in maniera frequente e duratura al fine di danneggiare la lavoratrice.
A parlare devono essere fatti oggettivi e comprovati per cui appare necessario prima di tutto esaminare la cronologia degli avvenimenti documentati.
Il Giudice, infatti, opera come uno storico che deve ricostruire la verità dei fatti e se da un lato egli è totalmente libero nel giudizio di diritto per il principio “iura novit curia” dall’altro è necessariamente soggetto al vincolo della conoscenza soltanto dei fatti affermati dalle parti “iudex secundum alligata iudicare debet”. Ciò premesso occorre esaminare la
documentazione in atti secondo l’ordine cronologico indicato dalle parti che denota già da una prima lettura come vi sia stata una graduale progressione della fattispecie posta all’esame del giudicante fino ad arrivare all’esclusione della signora D’Amico dal mondo del lavoro.
Ma….. partiamo dall’inizio.

PROVA DEL MOBBING

In data 4/2/1999 la Signora M. D’A., nello svolgimento delle proprie mansioni di segretario economo del Circolo Sottufficiali, avendo rilevato anomalie nella gestione della Cassa e tenuta della contabilità, provvede a segnalare, tramite via gerarchica al Capo di Stato Maggiore, dette irregolarità (cf. doc. n.2 del fascicolo di parte ricorrente). Va precisato che ai sensi dell’art. 5 delle disposizioni dell’Ente Circoli di Roma (norme per la contabilità Circolo Ufficiali e Sottufficiali) il segretario economo “svolge il servizio di cassa, provvede ed è responsabile della corretta compilazione di tutta la documentazione contabile e delle relative operazioni, registrazioni e trascrizioni”.
Il Capo di Stato Maggiore, in forma riservata e personale riscontra detta missiva imputando il fatto ad un “disguido”.
Va premesso che il coniuge della D’A. (ex sottufficiale di Marina) aveva già inviato una lettera in data 15/1/99 volta a rappresentare al Comando in Capo, in modo circostanziato e dettagliato, la situazione in essere presso il Circolo Sottufficiali della Spezia ed in particolare il fatto “che fosse affidata la gestione della mensa del Circolo Sottufficiali ad un dipendente che impropriamente effettuava pagamenti di fatture con il consenso degli organi direttivi dell’Ente stesso creando alla ricorrente difficoltà nella regolare tenuta della contabilità”.
Il giorno 7/7/1999, al rientro dal periodo feriale, la ricorrente si trova nella impossibilità di poter accedere al proprio ufficio in quanto la serratura dello stesso risultava essere stata cambiata. Sulla porta dell’ufficio economato era stato apposto un cartello recante la dicitura “Area Riservata” ed il nominativo della D’A. non figurava tra quelli, ivi indicati, autorizzati all’accesso. Alle rimostranze della stessa le veniva detto “da voci di corridoio” dell’avvenuta sua sostituzione nell’incarico di segretario economo con altra dipendente, Vitale Argentina, coadiutore IV livello, mediante l’ordine di servizio n.2 in data 24/6/1999 (prod. N.3) che non teneva conto che l’art. 5 delle disposizioni Ente Circoli Roma dianzi richiamato prescrive che in mancanza del Segretario Economo le relative attribuzioni devono essere esercitate dal tesoriere come era accaduto in altre circostanze (cf. pag.14 della trascrizione, testimonianza M., tesoriere del circolo 94-95); né del fatto che la D’A. veniva sostituita nell’incarico in un momento in cui si trovava in congedo ordinario.
Il giorno successivo, 8/7/99, perdurando la chiusura della porta dell’ufficio ed il divieto di ingresso la D’A., dopo aver sostato nel corridoio e nel locale lavanderia per diverse ore richiedeva l’aiuto delle Forze dell’ordine e solo a seguito del loro intervento veniva informata dall’aiutante C., sopraggiunto in seguito, che l’accesso al luogo di lavoro era stato regolamentato secondo le seguenti norme: “ chiave di accesso al luogo di lavoro da ritirare e consegnare giornalmente alla guardiana previa firma su apposito registro”. Nel momento in cui veniva a conoscenza di tali disposizioni la D’A. continuava tuttavia a non trovare collocazione in nessuno dei due uffici del Circolo (Economato e Segreteria dettaglio) provvisti entrambi del cartello indicante le persone autorizzate all’ingresso (fra le quali non compariva il nome della ricorrente). Veniva inoltre a sapere che l’altra dipendente dell’ufficio economato, la dipendente dell’ufficio del capo carico ed il personale della lavanderia continuavano ad essere in possesso delle chiavi dei rispettivi locali e tali chiavi continuavano a portarle a casa, come si era sempre fatto.

Quello stesso giorno 8/7/99 le veniva notificato dal Presidente Di G. l’ordine di servizio n. 2 datato 24/6/99 firmato dallo stesso Presidente e dal C.S.M. con il quale era stato conferito il suo incarico al coadiutore V. A. di IV livello (cf.prod.n.3).
Il giorno 9/7/99 le veniva notificato sempre dallo stesso Presidente del Circolo l’ordine di servizio n.3 dell’8/7/99 con il quale le venivano attribuite mansioni inferiori (IV livello) a quelle di VII livello svolte da circa 15 anni ed in ogni caso alle mansioni di inquadramento corrispondenti al V livello. Avrebbe in conclusione dovuto svolgere solo alcune delle mansioni del coadiutore ponendosi in subordine a V. A. che fino a quel momento era a lei subordinata. Continuava a non trovare collocazione alcuna negli uffici né come operatore amministrativo contabile e nemmeno come coadiutore.
In data 22/7/99 le venivano notificate a casa, mentre era in malattia, dai Carabinieri pronto intervento due missive:
Fg. nr. 924 datato 12/7/99 del Circolo Sottufficiali con il quale veniva convocata (anche se in malattia) presso la Presidenza del Circolo stesso per la consegna delle chiavi della scrivania dove erano custoditi solo effetti personali, minuta cancelleria ed elaborati senza alcuna rilevanza. Stranamente non le veniva richieste la chiave di riserva della cassaforte e la chiave dell’armadietto-libreria che peraltro veniva rinvenuto aperto nella parte posteriore.
2.    Fg. 85/503343 del 21/7/99 di Maridipart nel quale veniva affermato che l’intervento delle Forze dell’ordine richiesto dalla stessa il giorno 8/7/99 scaturiva da un “dissidio tra dipendenti” e per tale motivo le si contestava e le si attribuiva una condotta turbativa dell’ambiente di lavoro le si contestava di aver distolto  le Forze dell’ordine dai normali compiti istituzionali per futili motivi e le si attribuiva una condotta turbativa dell’ambiente del lavoro con riflessi negativi  sull’immagine dell’A.D. e degli altri dipendenti. Con lo stesso foglio la si convocava per rispondere di tale contestazione in data 26/7/99, giorno in cui doveva essere sottoposta presso il locale Marispedal a visita di idoneità a seguito di stress e stato depressivo provocati da questi eventi.
Nonostante la dettagliata memoria difensiva 2/8/99 /prod. n.8) e la lettera 1/12/99 indirizzata al Comando in Capo (prod.n.9), l’Amministrazione provvedeva ugualmente ad emettere la sanzione disciplinare del “Rimprovero Scritto” richiamando erroneamente nel provvedimento in data 25/1/2000 (cf, prod. N.10) i criteri di cui all’art. 25, 2° comma C.C.N.L. che prevede tassativi casi di illeciti disciplinari nei quali non rientra nessuno dei comportamenti tenuti dalla D’A. il giorno 8/7/99 in quanto “ non contrastanti con i doveri di ufficio”. Avverso tale provvedimento disciplinare la ricorrente presentava ricorso in data 11/2/2000 sia all’ufficio del lavoro – Collegio di Conciliazione – che alla Direzione Generale del Personale Civile – Collegio Arbitrale (prod. n. 11). Il Collegio Arbitrale, con provvedimento 7/4/2000, dichiarava estinto il procedimento disciplinare per la mancata osservanza, da parte dell’Amministrazione, del termine di 120 giorni, previsto dall’art 24. 6° comma C.C.N.L. (prod. N.129.
A seguito di tutti i fatti dianzi esposti la signora D’A. cadeva in uno stato depressivo quale risulta documentato dalle certificazioni in atti (V. prod. N. 16 e seguenti), doveva interrompere l’attività lavorativa per far ricorso alle cure ed assistenza di medici specialisti psichiatri e assunzione di terapia psicofarmacologica specifica.
Durante la visita medica presso l’Ospedale Militare della Spezia richiesta dalla ricorrente al fine di verificare la causa di servizio di tale malattia, la signora D’A. veniva riconosciuta permanentemente inidonea al servizio e affetta da malattia non compatibile con l’idoneità alla guida con segnalazione alla Motorizzazione Civile ed alla Prefettura (cf. lettera del 30/9/2000 d
ella Commissione Medico Ospedaliera dell’ospedale Militare della Spezia). Successivamente, con provvedimento del 13/11/2000, veniva qualificata “permanentemente inidonea a qualsiasi proficuo lavoro ed il rapporto veniva risolto per infermità.

La Signora D’A. veniva lasciata a casa senza stipendio, né pensione. Le veniva però inviata l’indennità di buonuscita e l’indennità di mancato preavviso.
Per ottenere il pagamento dello stipendio era costretta ad esperire prima azione ex art 700 c.p.c. e poi vari ricorsi per decreti ingiuntivi davanti a questo giudice.
Esposti cronologicamente gli avvenimenti documentati, occorre ora esaminare le prove testimoniali assunte.
Relativamente all’episodio avvenuto l’8/7/99 oltre al rapporto informativo del Comandante della Stazione dei Carabinieri per la Marina “Arsenale” prodotto in atti vi è la testimonianza del V. Brigadiere R. M. e dell’appuntato G. S. i quali sono stati sentiti da questo giudice sotto il vincolo del giuramento e mentre il M. ha dichiarato di non ricordare bene l’episodio se non che la porta era chiusa e che ha parlato con il G., il G. ha precisato che la signora D’A. li aveva chiamati perché non riusciva ad entrare nel proprio ufficio in quanto durante la sua assenza era stata cambiata la serratura (cf. pag 24 e 26 della trascrizione); che l’intervento non era stato richiesto per dissidio tra dipendenti e che i toni della ricorrente erano pacati e la stessa veniva da lui vista sostare all’ingresso e non poter entrare nella stanza. Tale testimonianza ha quindi comprovato la vericidità di quanto esposto dalla D’A. e ribaltato quanto dichiarato nel rapporto informativo non avendo la stessa distolto i carabinieri dai normali compiti istituzionali per futili motivi ma perché di fatto le veniva impedito di lavorare.

Quanto all’ordine di servizio con il quale la signora D’A. non era più segretaria economa i due carabinieri hanno detto di non averlo visto ma di averne sentito parlare da un sottufficiale presente.
Il G. ha anche precisato “ Che un capo di Marina gli ha fatto vedere un ordine del giorno in cui c’era scritto che per accedere al luogo di lavoro era necessario prendere le chiavi in bacheca, previa firma in apposito registro e poi lasciarle quando termina l’orario di lavoro”.
Oltre alla testimonianza dei due carabinieri vi è in atti anche la deposizione del teste S. – primo maresciallo della Marina Militare ancora in servizio, vicepresidente del circolo sottufficiali quando la signora era all’economato. Questo ha dichiarato “ che l’8-9 luglio fu chiamato dalla guardiana in quanto c’erano due carabinieri al circolo e ivi giunto trovò il questore Cimino che gli chiese dove fosse l’ordine di servizio della signora di cui peraltro non sapeva nulla per cui telefonò al Presidente Di G. che si trovava a Santo Stefano il quale gli rispose che non c’era niente e che se la sarebbe vista lui, mentre il Cimino trasecolava dicendo di aver visto l’ordine di servizio firmato dal Capo di Stato Maggiore in data 24/6/99 (cf.pag.23 trascrizione)”. Stranamente il teste S. pur essendo Vice Presidente del Circolo non sapeva nulla delle nuove direttive in merito all’accesso al luogo di lavoro. Inoltre ha dichiarato a pag. 31 e 32 che le chiavi l’8/7/99 non erano a disposizione di chi doveva entrare nell’ufficio ma che mentre prima era appese dietro la porta sotto la cassaforte della presidenza, poi non c’erano più”.
Si tratta quindi di un vero giallo sia in quanto alle chiavi che quanto all’ordine di servizio.
Sta di fatto che nonostante la D’A. fosse al secondo giorno di rientro al lavoro dalle ferie nessuno le aveva detto che erano cambiate le norme durante la sua assenza nonostante avesse visto il Presidente, il Tesoriere ed il Questore. Soltanto dopo la chiamata al 112 uno dei carabinieri  le comunicò “ che non era più segretaria di allora ma era una segretaria normale e comunque per accedere al luogo di lavoro doveva prendere le chiavi nella hall, previa firma in apposito registro e poi lasciarle quando terminava l’orario di lavoro”.
Quanto all’ordine di servizio con il quale era stata sollevata dall’incarico riusciva a prenderne visione solo nel pomeriggio.
Comunque non risultava nell’elenco delle persone autorizzate ad entrare nell’ufficio per cui non aveva una collocazione.
Soltanto il successivo 9/7/99 gli veniva consegnato l’ordine si servizio n.3 datato 8/7/99 con il quale le venivano attribuite mansioni inferiori di quarto livello ma limitatamente ad alcuni compiti quindi neppure nella sua integrità. Quando alla sostituzione nell’incarico di segretario economo con altro dipendente, V. A., coadiutore di IV livello è già stato in precedenza nella motivazione in ordine alla violazione dell’art. 5 delle Disposizioni Ente Circoli di Roma e di come in altre circostanza invece ci si fosse attenuti a tale norma (cf. pag 14 della trascrizione – testimonianza del tesoriere M.).
Va tuttavia precisato che dalla deposizione del teste A. è risultato anche che la V. “non era capace di svolgere quel lavoro e che non se la sentiva anche per esigenze familiari”.

Va anche sottolineata la circostanza che detta sostituzione avveniva a seguito di congedo ordinario della D’A. che dopo un periodo di 20 + 20 giorni di assenza per malattia per cervicobracalgia riconosciutale dall’Ospedale Militare della Spezia, aveva presentato la richiesta di ferie per 25 giorni che le erano state concesse a decorrere dall’8/6/99 senza che fosse evidenziata alcuna esigenza di servizio ostativa.
Ciò contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa di parte resistente che ne ha giustificato la sostituzione all’evidente fine di assicurare la necessità di concludere la stesura della contabilità del Circolo. Perché allora non le è stato rifiutato il congedo ordinario in quel momento? Perché non le sono state comunicate subito il 7/7 al momento del suo rientro al lavoro dopo le ferie le nuove norme relative alle chiavi della segreteria del Circolo?
Detta modifica organizzativa pur essendo stata originata secondo la difesa del Ministero della Difesa, dalla circostanza che le precedenti chiavi erano in possesso di tutto il personale e ciò impediva di garantire la riservatezza della documentazione relativa agli iscritti al circolo, doveva essere in ogni caso tempestivamente comunicata a tutti i dipendenti compresa la D’A. senza che la stessa fosse umiliata al punto di dover sostare nel corridoio e nel locale lavanderia senza che le venisse detto ciò che tutti sapevano.
Vi è una chiara violazione dell’art 1375 c.c. secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede e degli art. 1,2,3,4,37 e 41 Cost. in cui viene ribadito il rispetto della dignità umana.
Poco chiaro permane tuttavia nonostante l’espletata istruttoria il fatto che le altre signore dell’ufficio accanto del capo carico e del locale lavanderia continuavano come di consueto ad aprire gli uffici quindi portando le chiavi a casa.
Probabilmente la risposta a tutto ciò è nelle successive deposizioni testimoniali.
Il teste P., maresciallo dei carabinieri addetto al centro operativo in Arsenale, incaricato di svolgere le indagini sul Circolo Sottufficiali, alla pag. 30 e seguenti della trascrizione ha precisato che “ la cosa nasce per una lettera che il marito della D’A. fece”.
La spiegazione di tutto è in questo esposto dal quale scaturì una relazione dei carabinieri alla Procura Militare dalla quale si evinceva per quanto concerne le feste del circolo una discrepanza tra la spesa rilevata sui libri contabili delle varie associazioni che facevano le feste e l’importo indicato sugli statini di spesa del Circolo che era inferiore, In particolare il teste P. ha ricordato un episodio in cui grazie alla signora D’A. fu trovato un documento di introito generale delle feste del cerimoniale privato dell’anno 1998 che prima non si trovava.
La teste B. cameriera del Circolo Sottufficiali dal 92 al 2000 ha dichiarato di essere a con
oscenza come tutte le persone del Circolo di sollecitazioni fatte alla D’A. da parte del colonnello La M. di modificare i dati di bilancio del Circolo alle quali la ricorrente ha sempre opposto un netto rifiuto (cf. pag 44 e seguenti trascrizione). In particolare la teste ha riferito “ di avere personalmente sentito il Presidente M. ed il Tesoriere C. dire alla ricorrente di cambiare i bilanci perché continuavano ad arrivare sollecitazioni da parte del colonnello La M. Allora la D’A. ha detto: “io non farò questo fatto perché comunque non è corretto, se voi me lo mettete per iscritto e lo controfirmate magari ci posso anche pensare, diversamente questi sono i registri  e lo fate voi” (cf. pagg 45 e 46).

La B. su richiesta del giudice ha anche descritto il clima che si era venuto a creare intorno alla D’A. che mentre in un primo tempo era benvoluta da tutti, poi era stata “massacrata” (cf.pag.56) in quanto veniva accusata di essere una ladra da parte di A. O., gestore della mensa del Circolo negli anni 98/99 e di non essere degna del lavoro che faceva da parte di capo G. che cercava  di fare attorno a lei terra bruciata (cf. pag.52) come avvenne per esempio durante un rinfresco tenuto per un collega che si sposava in cui disse “ quando c’è da mangiare, da prendere soldi lei è sempre presente”. Anche il Presidente Di G. ricorda che la mise in guardia nei confronti della D’A. dicendo di non fidarsi di lei “perché è un vero serpente…non le posso dire altro”.
La D’A. è stata emarginata, isolata ed umiliata da tutti, così ha concluso la sua deposizione la teste B.
Anche il teste S. Vice Presidente del Circolo Sottufficiali quando la signora D’A. era all’economato ha dichiarato (cf. pagg 7 e seguenti della trascrizione) che la stessa più volte aveva sollecitato il Presidente del Circolo ad attenersi alle regole per la contabilità in quanto “ contrariamente a tali regole alcuni pagamenti di fatture venivano effettuati dal cameriere O. e non dall’economa o dal tesoriere”; che aveva anche segnalato la scomparsa di documenti contabili invitando inutilmente il Presidente del Circolo ad intervenire per poter lavorare con serenità (cf. pag 21);
che l’O. accusava apertamente la signora di rubare, che il Capo G. diceva che la D’A. invece di fare l’economa avrebbe dovuto andare a fare “lo spurgo dei pozzi neri”, che l’aiutante C. diceva alla signora che doveva limitarsi a fare il lavoro di copiatura delle schede senza valutarne la correttezza amministrativa (pag.25); che il Presidente Di G. l’8/7/99 disse alla D’A. che era una vipera e che doveva schiacciarla prima”.
Il teste A., Capo di Stato Maggiore a Maridipart dal 92 al 95 ha confermato il rapporto informativo positivo portante la sua firma sulla signora D’A. ed ha anche ricordato che negli anni 92 – 93 mancavano all’appello dieci milioni di materiali dal bar del Circolo Sottufficiali e che fu avviata una indagine sia penale che amministrativa durante la quale la D’A. collaborò mostrando professionalità e diligenza tanto che servendo una contabile per le medicine all’Ospedale Militare fu fatto il nome della ricorrente che tuttavia non aveva chi la sostituiva al Circolo Sottufficiali in quanto la V., interpellata disse che non era capace e che non se la sentiva per esigenze familiari. Ha anche detto di essere rimasto esterrefatto per “ il licenziamento” della D’A. in quanto in Marina era la prima volta che succedeva una cosa del genere.
Anche il teste S., Presidente del Circolo dal 91 al 92, ha detto che in quel periodo tutti volevano bene alla D’A. che era sempre disponibile e che quando la V. fu assente per sei mesi fece il suo lavoro sebbene fosse inferiore.
Il teste R. a pag 16 della trascrizione, dopo aver lavorato per otto anni con la D’A. come capo carico del Circolo Sottufficiali, la descrive sempre allegra, disponibile e competente.

Il dott. Di L. fino al 96 medico dell’Ospedale Militare ha detto che la ricorrente non aveva avuto problemi particolari in epoca precedente ai fatti per cui è causa (cf.. pag 47). Ugualmente ha dichiarato il medico del lavoro dott. M.
Di tutt’altro avviso è invece la testimonianza del dott. G. della Clinica del Lavoro dell’Università di Milano che ha visitato la signora alla fine del 99 e ha formulato una diagnosi di disturbo post-traumatico da stress che è una situazione psichiatrica di disturbo psichico che nasce da situazioni cariche di un potenziale traumatico sul piano psichico (cf. pag. 5 trascrizione).
Il prof. G. nel corso della propria deposizione testimoniale ha fatto una vera e propria lezione di medicina precisando in particolare che se ci sono delle continue sollecitazioni di carattere emotivo, degli stimoli continui è chiaro che questi possono mantenere attivo il processo, al limite possono anche peggiorare la situazione (cf. pag.22), che la situazione psichica in cui versa la D’A. può venire alimentata nel senso che persistono, sono uno stillicidio di situazioni negative ripetute nel tempo, alimentano la patologia (cf. pag.21).
Partendo da questo assunto, compito del giudice è quello di valutare la rilevanza degli eventi conflittuali lavorativi accaduti e la loro associazione e sequenza nell’arco temporale che va dall’inizio del 99 alla fine del 2000.
Si è già detto dettagliatamente dei fatti accaduti fino alla statuizione della sanzione disciplinare del rimprovero scritto poi annullata per vizio di forma.
Occorre ora parlare più approfonditamente del provvedimento n. prot. 85/48499/I del 13/11/2000 avente ad oggetto “Risoluzione del rapporto di lavoro per infermità della dipendente D’A. sottoscritto dal Capo di Stato Maggiore C.V. A. D. (v. doc. n.6 in atti).
Detto provvedimento veniva emesso durante una visita a cui la ricorrente veniva sottoposta a seguito di istanza di riconoscimento della causa di servizio richiesto dalla stessa e pendente la causa del lavoro per cui la signora D’A. presentava ricorso d’urgenza ex artt. 669 bis e segg. e 700 c.p.c. .-
Costituitosi con memoria il Ministero della Difesa evidenziava che la risoluzione del contratto di lavoro si sarebbe verificata soltanto “nell’eventualità che la presente inidoneità fosse stata confermata dalla Commissione di secondo grado e fosse stato emanato un provvedimento formale di risoluzione del contratto di lavoro.
Con Ordinanza 3/4/2001 questo giudice statuiva quanto segue.
“all’esito dell’istruttoria effettuata ancorché in sede di cognitio sommaria sono emerse circostanze poco chiare e contraddittorie.
Da un lato infatti D’A. M. risulta  di fatto essere stata collocata in quiescenza dall’Amministrazione della Difesa con corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso prevista dall’art. 21, 4° comma CCNL e dell’indennità di buonuscita, di ferie godute, ecc (cf. prod. N.6 del fascicolo di parte ricorrente).
Dall’altro lato da un punto di vista meramente formale non è emersa alcuna risoluzione del rapporto di lavoro intercorrente fra la D’A. e il Ministero della Difesa.
Osserva questo giudice che compito dell’adito organo giudicante è proprio quello di far luce in questa intricata vicenda e porre dei punti fermi cui le parti dovranno fare riferimento.
Prima di tutto va chiarito che il giudizio della commissione di Marispedal della Spezia non è atto definitivo ma deve essere convalidato dalla Commissione di Seconda Istanza presso Marispesan di Roma; che in ogni caso il giudizio negativo espresso dalla Commissione Medica sulla idoneità fisica del pubblico dipendente non è impugnabile anteriormente, ma solo col provvedimento che sulla base di detto giudizio, dichiari il dipendente decaduto dalla nomina; che nel caso in esame nessun atto formale di risoluzione del contratto di pubblico impiego risulta essere intervenuto.
Pur tuttavia vi sono stati da parte della P.A. dei comportamenti concludenti legittimanti nella ricorrente la convinzione dell’intervenuta risoluzione del rapporto quali ad esempio la corresponsione dell’ind
ennità sostitutiva del preavviso pari a £. 4.135.750 e dell’indennità di buonuscita pari a £. 29.000.000.

A riprova della fondatezza dei timori espressi dalla ricorrente nel proposto ricorso ex art. 700 c.p.c. vi è il fatto che soltanto in data 13/2/2001 è pervenuta alla D’A. una nota del Capo di Stato Maggiore in cui si dice testualmente “ che visto il ricorso ex art 700 c.p.c. inteso alla sospensione del provvedimento di risoluzione del rapporto di lavoro e in attesa dell’accertamento medico legale di idoneità di II istanza nonché della verifica circa la sussistenza della malattia professionale da parte dell’I.N.A.I.L., la procedura di risoluzione del rapporto di lavoro va revocata con riserva di adottare i provvedimenti conseguenti all’esito dei menzionati provvedimenti conseguenti all’esito dei menzionati provvedimenti”.
Pertanto atteso che da parte della stessa amministrazione della Difesa si è provveduto a revocare la procedura di risoluzione del rapporto di lavoro questo giudice non ritiene di dover più provvedere sulla richiesta di sospensione del provvedimento di risoluzione proposta con il ricorso ex art. 700 c.p.c.
Ritiene invece, visto che permane una situazione poco chiara in ordine alla riammissione in servizio della ricorrente, precisare che la stessa va considerata a tutti gli effetti facente parte dell’organico del Ministero della Difesa senza soluzione di continuità.
Pertanto non di reintegrazione si deve parlare ma di continuazione di un rapporto che formalmente non è mai cessato.
Va al riguardo precisato altresì che la P.A. dovrà anche regolare con urgenza dal punto di vista economico la posizione della D’A. che dall’Ottobre 2000 non percepisce alcun emolumento e che ha anche un figlio che studia all’università di Firenze e sulla quale grava altresì un mutuo di £ 40.000.000 ottenuto dalla Banca Commerciale per la ristrutturazione della casa di abitazione. Le suddette circostanze rendono sussistente il c.d. periculum in mora

P.Q.M.

Dichiara la persistenza del rapporto di lavoro intercorso fra D’A. M. ed il Ministero della Difesa con l’obbligo da parte del Ministro pro tempore di emettere con urgenza i provvedimenti economici conseguenti a tale dichiarativa. La spese al definitivo. Fissa termine perentorio di 30 giorni per l’instaurazione del giudizio di merito.”
Nonostante tale statuizione l’Amministrazione convenuta non dava esecuzione al provvedimento del giudice del lavoro, pur trattandosi di credito alimentare.

Nessun effetto sortivano le lettere dei legali della ricorrente indirizzate al Ministero della Difesa, affinché quest’ultimo ottemperasse al sopra richiamato provvedimento, nonostante che la stessa Avvocatura dello Stato invitasse la P.A. ad ottemperare (cf. lettera dell’Avvocatura prodotta).
Si rendeva necessario adire nuovamente l’Autorità Giudiziaria chiedendo l’emissione di decreti ingiuntivi per ottenere il pagamento delle mensilità dovute.
Contro la quasi totalità dei decreti ingiuntivi il Ministero della difesa proponeva opposizione sostenendo l’insussistenza del diritto della ricorrente alla corresponsione degli emolumenti in oggetto.
Il Ministero della Difesa opponente deduceva, quale unico motivo di opposizione, la circostanza in base alla quale alla D’A. non sarebbero dovute le competenze mensili maturate successivamente alla data del 31/10/2000 in quanto, da tale momento, la stessa si trovava nella situazione delineata dall’art. 21, comma 2 del CCNL Comparto Dipendenti Ministeriali, che prevede la possibilità per il pubblico dipendente di assentarsi per un ulteriore periodo di 18 mesi da sommare a quanto previsto dal comma 1 del medesimo articolo, “nell’ipotesi di casi particolarmente gravi, ma senza diritto alla retribuzione”.
In altre parole, Il Ministero della Difesa riteneva che la D’A., a far tempo dal 31/10/2000, si trovasse nella situazione della così detta aspettativa non retribuita con conservazione del posto di lavoro per un periodo di 18 mesi, ma senza diritto alla retribuzione.
La tesi sostenuta dal Ministero della Difesa nelle cause da questa radicate in opposizione ai necessitati decreti ingiuntivi è però priva di pregio e fondamento per lo meno per due motivi: il primo perché la tesi è contraddetta dallo stesso comportamento del Ministero antecedente al provvedimento del Giudice, quando la ricorrente fece richiesta dei 18 mesi di aspettativa non retribuita ed alla stessa non fu data neppure risposta (la P.A. riteneva infatti che, in base alla grave diagnosi dalla stessa operata, seppur illegittimamente, non si dovesse concedere il periodo richiesto di ulteriori 18 mesi di aspettativa non retribuita); in secondo luogo, perché quando la situazione patologica è indotta dal datore di lavoro non vi è superamento del periodo di comporto cosi come da sentenza della Suprema Corte di Cassazione n. 4959 del 5/3/2005, come più diffusamente si dirà in seguito.
E’ vero come è stato detto nell’arringa finale dell’Avvocato dello Stato che la situazione è “ingarbugliata”, ma è altrettanto vero che se poca chiarezza c’è stata, questa è riferibile esclusivamente al comportamento del Ministero della Difesa che ha indotto la ricorrente a ritenersi licenziata in quanto tutto, anche successivamente, ha militato in tale direzione. La Commissione di I^ istanza aveva definito infatti la signora D’A. “ permanentemente inidonea al servizio ” ed il Capo di Stato Maggiore C.V. D. l’aveva qualificata permanentemente inidonea a qualsiasi proficuo lavoro (cf. prod. n 6).
Tale provvedimento veniva adottato in sede di visita medica per accertare l’idoneità al servizio e non la permanente  inabilità al servizio, contravvenendo a quanto disposto dalla circolare della stessa Amministrazione n. G/26 del 25/3/97 “ si tratta infatti di due ambiti completamente diversi, finalizzati a scopi ben individuati.

Pertanto la visita di idoneità non potrà mai assorbire quella finalizzata all’accertamento dell’inabilità al lavoro.
Il provvedimento è stato adottato senza che alcun medico specialista visitasse e valutasse lo stato di salute della ricorrente.
Quando alla stessa P.A. la ricorrente chiese con istanza versata in atti di ottenere un’aspettativa/congedo di ulteriori mesi per malattia, senza retribuzione, ma unicamente con la conservazione del posto di lavoro (così come previsto dall’art.21 del CCNL) la Pubblica Amministrazione negò tale possibilità alla ricorrente, non riscontrano tale istanza.
Per la Pubblica Amministrazione, infatti, la ricorrente era nelle condizioni di permanente inidoneità a svolgere qualsivoglia proficuo lavoro e quindi…. Non meritava neppure una risposta (cf. pagg 52 e 53 della trascrizione dell’udienza del 21/11/2001 teste M.).
Va infine sottolineata “dulcis in fundo” la segnalazione fatta da parte della Commissione Medico Ospedaliera dell’Ospedale Militare della Spezia con lettera 30/9/2000 alla Motorizzazione Civile ed alle Prefetture della Spezia e di Isernia che la D’A. era affetta da malattia non compatibile con l’idoneità alla guida.
A seguito di ciò l’ufficio della Motorizzazione della Spezia disponeva (cf. foglio 5634 del 6/10/2000) la revisione straordinaria della patente di guida.
In merito a tale circostanza i medici escussi come testi: dott. Di L., M., L. e G. hanno escluso che sia prassi corrente costante per la patologia da cui era affetta la D’A. all’epoca dei fatti che si inizi un procedimento per la revisione della patente. In particolare il teste G. ha escluso la sussistenza di pericolosità sociale della D’A. ed ha detto che almeno il 10% degli italiani e forse anche di più assumono i farmaci prescritti alla ricorrente.
Per tutti questi fatti fin’ora esposti, per completezza va detto che la signora D’A. ha presentato alla Procura della Repubblica della Spezia varie denunce come risulta dalla documentazione in atti.

In particolare per quanto riguarda le irregolarità
nella gestione della contabilità denunciata dalla D’A. ai suoi superiori con lettera del 4/2/99 (cf. prod.n.2) in sede penale il giudice Alessandro Ranaldi, pur non ritenendo il verificarsi di alcun reato ha rilevato tuttavia la sussistenza di una gestione disinvolta e non regolare evidenziando in questo modo la vericidità di quanto sostenuto dalla ricorrente nella lettera del 4/2/99.
Volutamente da questo giudice non sono state esaminate le doglianze relative all’espletamento di mansioni superiori ed al mancato riconoscimento dell’indennità di cassa nell’anno 1997 in quanto nel ricorso introduttivo alla pag. 28 è fatta espressa riserva di promuovere azione risarcitoria con atto a parte essendo la presente controversia di più immediata rilevanza per la ricorrente. Pertanto queste doglianze saranno eventualmente esaminate in altra causa e restano quindi al di fuori del thema decidendum di tale giudizio.
I precedenti giurisprudenziali in tema di mobbing sono sostanzialmente concordi nel ritenere indispensabile la concorrenza di due elementi e precisamente quello della reiterazione e della sistematicità delle condotte e l’intenzionalità delle stesse, elementi entrambi ricorrenti nel caso di specie.
Ritiene questo giudice che la signora D’A. sia stata vittima di un processo denigratorio della sua personalità morale attraverso le frasi ingiuriose quali risultano dalle testimonianze precedentemente indicate e i comportamenti così come sono stati descritti che risultano antigiuridici anche singolarmente considerati ed a maggior ragione se valutati nel loro insieme rendono evidente la volontà persecutoria in suo danno. Si tratta di condotte contrarie ai più elementari canoni di buona fede e correttezza contrattuale, scientemente realizzate per mortificare la lavoratrice dimostrando che ella conta così poco da non meritare neppure di essere informata su scelte che la riguardano direttamente.
 La dimostrazione dell’esistenza di un collegamento tra i vari episodi denunciati dalla ricorrente e dianzi esposti è desumibile dalla decisione di irrogarle una sanzione disciplinare (a nulla conta se poi è stata annullata per motivi formali) laddove la lavoratrice si era legittimamente rivolta ai carabinieri per poter rendere la propria prestazione lavorativa che di fatto le veniva impedita; dall’invio a casa dei carabinieri per avere le chiavi del cassetto della sua scrivania creando allarme nei vicini di casa quando attorno alla figura della D’a. era già stato creato un clima di sospetto sulla sua onestà:
le dicevano che rubava.

Ritiene questo giudice che se un datore di lavoro pensa che un suo dipendente ruba, quantomeno fa indagini in tal senso in modo da verificare le effettive responsabilità e non si limita a calunniarlo se non vi sono delle prove. A maggior ragione quando questi, come la ricorrente, fa delle denunce ben precise su irregolarità amministrative e/o contabili che si perpetravano presso il Circolo Sottufficiali della Spezia e sulle quali nessuna indagine viene fatta ma tutto viene sbrigativamente giustificato come “ un disguido”.
Ma….l’apice della strategia persecutoria viene raggiunta allorché la stessa durante una visita medica presso l’Ospedale M.M. della Spezia effettuata al fine di accertamento dell’idoneità al servizio, viene giudicata permanentemente inabile al servizio confondendo due ambiti completamente diversi, finalizzati a scopi ben individuati. E’ la stessa Circolare dell’Amministrazione convenuta n. G/26 del 25/3/97 a disporre che la visita di idoneità non potrà mai assorbire quella finalizzata all’accertamento dell’inabilità al lavoro.
Inoltre dall’Istruttoria della causa sono emerse altre due circostanze che evidenziano un particolare accanimento nei confronti della D’A.: la ricorrente è stata ritenuta portatrice di malattia socialmente rilevante da parte della Commissione Medico Ospedaliera dell’Ospedale Militare della Spezia con invio agli uffici della Motorizzazione Civile e della prefettura delle province della Spezia e di Isernia affinché le venisse ritirata la patente di guida.
La dichiarazione di “ permanete non idoneità al servizio ” è stata modificata con la dichiarazione di “ permanente non idoneità a svolgere qualsiasi proficuo lavoro” a decorre dal 21/10/2000 (cf. doc. n.6) ovvero un vero e proprio relitto umano il cui rapporto di lavoro viene quindi di fatto “ risolto per infermità” in quanto le viene inviata l’indennità di buonuscita e di mancato preavviso, ma non la pensione.
La signora è costretta a proporre  un nuovo ricorso ex art. 700 c.p.c. in quanto pur essendo in malattia (causata come si dirà in seguito  dal comportamento del datore di lavoro) non percepisce alcun emolumento mensile e nonostante il provvedimento del giudice in data 3/4/2001 è costretta a proporre vari ricorsi per decreti ingiuntivi per ottenere il pagamento dello stipendio.
E’ la prima volta che questo giudice in 20 anni di lavoro vede un accanimento così pervicace nei confronti di una lavoratrice da parte di funzionari della pubblica amministrazione che si rifiutano anche di adempiere l’ordine del giudice “ di regolare con urgenza dal punto di vista economico la posizione della D’A. che dall’Ottobre 2000 non percepisce alcun emolumento”.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte deve quindi essere confermata, senza ombra di dubbio, la responsabilità civile dei funzionari civili e militari preposti alla direzione ed alla sorveglianza del Circolo Sottufficiali del Ministero della Difesa della Spezia per violazione dell’art. 2087 c.c. in relazione ai danni subiti dalla signora D’A. a causa delle condotte vessatorie realizzate nei suoi confronti.
Non si è trattato infatti di azioni vessatorie singole ed estemporanee ma di una vera e propria strategia coerente e premeditata ai danni di una vittima ben precisa con l’intento lesivo di distruggerla, allontanarla, degradarla.Nel mobbing i protagonisti sono sostanzialmente due: la vittima o mobbizzato e l’aggressore o mobber. Teniamo presente che non si tratta di due persone, bensì di due ruoli in conflitto, ognuno dei quali può essere costituito da una o più persone, in cui è ben chiaro un dislivello di potere con la conseguenza che la vittima viene a trovarsi sempre in una posizione di svantaggio.
Dice Harold Ege nel suo libro “Mobbing conoscerlo per vincerlo” “ che spesso le strategie del mobbing si basano sulla menzogna, si mettono in giro false voci per danneggiare la reputazione di una persona,….poi vi è una progressione dei fatti….dalle calunnie si arriva alla risoluzione del rapporto di lavoro. Il maggior numero di casi di mobbing colpisce la donna in una fascia di età compresa tra i 41 e i 50 anni con alle spalle un’anzianità di servizio superiore agli 8 anni”. Secondo il “metodo Ege 2002” vi sono infatti sette parametri fondamentali per l’individuazione del mobbing: l’ambiente lavorativo; la frequenza; la durata; il tipo di azioni; il dislivello tra gli antagonisti; l’andamento secondo fasi successive; l’intento persecutorio.
A parere di giusto giudice è evidente che tutti questi parametri ricorrono nel caso in esame.

Ma cos’è il mobbing?

Va premesso che questo giudice concorda con l’Avvocato dello Stato nell’auspicare che in un testo legislativo regolante tale fattispecie si conii un altro vocabolo più felice e più aderente alla nostra cultura di origine greco-romana anche se oramai la parola mobbing è diffusa in tutto il mondo e diffrenziandoci finiremmo con essere isolati rispetto alle altre culture giuridiche.
Ma…. a parte queste considerazioni personali, per far comprendere anche all’uomo qualunque cos’è il mobbing, basta ricordare la figura del ragionier Fantozzi, relegato in un sottoscala dal tirannico capoufficio. Si tratta sicuramente del più famoso “mobbizzato” d’Italia che tuttavia non ha mai saputo di esserlo perché negli anni in cui la trasposizione cinematografica delle
sue avventure divertiva gli spettatori, il mobbing non era ancora studiato come fenomeno sociale in grado di causare gravi danni alla salute dei lavoratori.
L’espressione mobbing deriva dal verbo della lingua inglese to mob che significa assalire, aggredire ed è ripresa dalla scienza dell’etologia e descrive il comportamento di un gruppo di animali che si accaniscono contro uno di essi per espellerlo dal branco. Il primo ad usare tale termine fu negli anni sessanta Konrad Lorenz e successivamente tale concetto fu ripreso dalla psicologia del lavoro quando si è trovata nella necessità di esprimere quel medesimo fenomeno di aggressione nell’ambiente di lavoro.
L’attuale psicologia del lavoro ( i primi studiosi sono stati Hans Leymann ed in Italia Harold Ege) indica con questo termine una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, la reputazione e/o la professionalità della vittima.
In ogni caso, gli studiosi del fenomeno sembrano concordare che due sono gli imprescindibili elementi dello stesso: la reiterazione delle condotte (costituite da negozi, atti, meri comportamenti), non necessariamente illecite se considerate in sé, per un arco di tempo apprezzabile (almeno sei mesi, secondo alcuni studiosi) e la loro intenzionalità ( da non considerarsi come coscienza specifica del fine ma come finalità riprovevole in relazione alla lesione dei beni della dignità personale e della salute psico-fisica).

Queste considerazioni sono oramai entrate anche nel bagaglio giuridico degli operatori del diritto, dopo che alcune pronunzie dei giudici di merito hanno riconosciuto l’esistenza del fenomeno e lo hanno anche, in alcuni casi, sanzionato (cfr. Trib. Torino 16 novembre 1999, in “Riv. It. Dir. Lav.”, 2000, II, p.102; Id. 11 dicembre 1999, in “Foro it.” 2000,I, c.1555; Trib. Milano 20 maggio 2000,in “Or. giur. Lav.”,2000, 959; Id. 16 novembre 2000, ibidem, 962; Trib. Como 22 maggio 2000, in “Lav. Giur.”, 2002, p.73; Trib. Forlì 22 marzo 2001, in “Riv. it. dir. lav.”, 2002, II, p. 521, ove, in motivazione, sono riportate le definizioni del fenomeno elaborate dalla contemporanea psicologia del lavoro; negativamente, v. Trib. Venezia, 26 Aprile 2001, in “ Rv. Giur. Lav.”, 2001, p. 88).
Il fenomeno in esame non è stato ancora tipizzato legislativamente (ed a ciò si è appellato il Tribunale di Venezia nella sua sentenza del 26 aprile 2001 succitata per negare la configurabilità giuridica del mobbing e la sua risarcibilità), ma non può dirsi del tutto sconosciuto alle aule parlamentari, dato che sono stati presentati, sullo scorcio della passata Legislatura ed in quella attuale, diversi disegni e progetti di legge in argomento, tutt’ora pendenti; in ogni caso, è fatto notorio che il mobbing è oramai da tempo all’attenzione non solo della giurisprudenza e della dottrina, ma anche dell’opinione pubblica e del Parlamento in quanto una maggiore sensibilità datoriale a problemi del genere consentirebbe un indiscutibile vantaggio per tutti, compreso il datore di lavoro che eviterebbe cali di produttività della forza lavoro per lunghi periodi determinati da situazioni di mobbing. Le forme depressive dovute al mobbing recano un danno socio-economico rilevante, quindi intervenire su questo problema non è solo necessario per ragioni etiche di giustizia e di correttezza nei rapporti umani, ma anche di opportunità economica, sia per il buon funzionamento dell’azienda, sia per minimizzare i costi sociali e sanitari.

Anche il Parlamento Europeo con la Risoluzione A5- 0283 del 20/9/2001 ha esortato le istituzioni Europee a fungere da modello per quanto riguarda l’adozione di misure per prevenire e combattere il mobbing.
Ritiene il giudice che la mancata (sino ad ora) tipizzazione legislativa non sia di ostacolo a riconoscere per via giurisprudenziale, sulla scorta del diritto vigente, il fenomeno del mobbing ed ha sanzionarlo adeguatamente.
Infatti, dalle scienze del lavoro (psicologia e sociologia applicate) si ricava la definizione dello stesso e si individuano i suoi caratteri fenomenologici; dal loro esame, deve riconoscersi che ciò che differenzia il mobbing  da altre figure di illeciti è la sua capacità di unificare in una fattispecie unitaria illecita una pluralità di azioni, atti, negozi e comportamenti, alcuni dei quali, in sé considerati, potrebbero essere anche neutri ma il cui (reale) fine (dannoso ed illecito) si apprezza soltanto se letti in unione con altri ed in un’ottica finalistica complessiva. Il mobbing, dunque, va visto come fenomeno capace di rappresentare unitariamente una fattispecie complessa e di dare ai suoi comportamenti un significato unitario.
Portando il discorso sul piano giuridico, si osserva che, anche allo stato attuale della legislazione, la fattispecie del mobbing si presenta in contrasto con alcuni fondamentali precetti costituzionali: di certo, con quello dell’art. 2, che tutela la dignità dell’uomo (anche) nella formazione sociale ambiente di lavoro; ma anche con quello dell’art. 3, 1° comma Cost., che vieta discriminazioni in ragione delle diverse condizioni personali.
Il mobbing si pone in contrasto con il principio di tutela della salute sancito dall’art. 32 Cost., essendo evidente che il fenomeno in esame può incidere negativamente sul benessere psico-fisico (si parla, al riguardo, per descrivere gli effetti del mobbing sulla salute, di sindrome post-traumatica da stress) ed, inoltre, vi è contrasto con la protezione accordata all’iniziativa economica privata nel  rispetto della dignità umana (art. 41, 2° comma, Cost.).
Dunque, non par dubitabile che possa già riconoscersi allo stato attuale della legislazione protezione dal mobbing, risolvendosi esso in una figura di unificare fattispecie di danno biologico, di danno alla dignità e personalità morale, di danno all’immagine ed all’onore del prestatore di lavoro ( già oggi pacificamente risarcibili) ed anche situazione che, avulse dal contesto in cui si iscrivono, non sarebbero illecite.

E’ poi precipuo compito del giudice, non demandabile ad un consulente, valutare se, nella fattispecie concreta posta alla sua attenzione, sussistano o meno gli estremi della figura del mobbing, al riguardo utilizzando la descrizione fenomenologia che di esso ne danno le scienze del lavoro che se ne occupano; potrà essere invece demandato al consulente l’accertamento se siano rinvenibili sulla persona del lavoratore che denunzia di aver subito una siffatta persecuzione, eventuali postumi da essa derivanti; tuttavia, poiché il mobbing supera e non si risolve nel tradizionale danno biologico ( o danno alla salute medicalmente accertabile), la consulenza non necessariamente sarà medico-legale e potrà anche non essere necessario disporla.
Se questo è il fenomeno, prima di esaminare o profili collegati alla prova del danno ed al suo risarcimento, deve essere esaminato ora quello che concerne la responsabilità datoriale ( su ciò, v., p. es., Cass. 21 dicembre 1998, n.12763; Id. 2 maggio 2000, n. 5491; Id. 7 novembre 2000, n. 14469; Id. 21 febbraio 2001, n.2569; Id. 20 giugno 2001, n. 8381).
Al riguardo, come insegna la Suprema Corte (sentt. ult. citt.) la stessa può essere sia contrattuale, per violazione dell’art. 2087, c.c., sia extra contrattuale, per violazione dell’art. 2043, c.c., sia concorrente nonché derivante dalla violazione dei diritti soggettivi primari.
Il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., deve fare tutto quanto è in suo potere per prevenire situazioni di possibile nocumento morale dei lavoratori (secondo il principio della massima sicurezza possibile in un dato momento storico, su cui v., p. es. Cass. 29 dicembre 1998, n. 12863; Id. 3 aprile 1999, n.3234) e, se tali situazioni si presentano, attivarsi per farle cessare il prima possibile, ripristinare lo stato salutare e risarcire l’eventuale danno cagionato.


Ne segue che la prova liberatoria incombe sul datore di lavoro, il quale, ai sensi dell’art. 1218, c.c., dovrà provare che l’inadempimento è dipeso “da causa a lui non imputabile”, mentre il lavoratore dovrà dimostrare il danno ed il nesso casuale tra l’evento sofferto ed il comportamento datoriale; al riguardo, il datore dovrà rigorosamente dedurre e provare di aver espletato adeguata e costante sorveglianza e, più in generale, di aver preso tutte le misure e precauzioni per evitare il pericolo d’insorgenza della situazione dannosa (non può tuttavia giungersi all’assioma per il quale, dal verificarsi del danno, è provata la responsabilità, poiché quest’ultima finirebbe col divenire oggettiva: da ult., in termini Cass. 5 Dicembre 2001, n. 15350).
Nel nostro caso, la responsabilità datoriale sussiste e l’art. 2087, c.c., va ritenuto violato.
Dalla documentazione amministrativa prodotta in atti e dall’istruttoria espletata emerge una chiara situazione conflittuale tra l’Amministrazione e la ricorrente in quanto la stessa, come è stato già detto, ha subito nell’ambiente di lavoro un clima di ostilità, provocazioni e vessazioni, permeato da una serie di velate minacce, piccole e sottili allusioni e maldicenze sul proprio conto e sul proprio operato, con una tensione costante e perdita di serenità sul posto di lavoro. Tali eventi le hanno procurato come concluso dalla CTU medica espletata, i danni che si vanno ad esaminare, non prima di precisare che la dott.ssa B., specialista in psichiatria, nonché collaboratrice del prof. G. B. C. di Pisa, esperto di chiara fama in campo psichiatrico, ha pienamente riconosciuto il nesso causale ed ha concluso il proprio elaborato peritale affermando: “dalle informazioni contenute nella documentazione prodotta, dai colloqui con la D’A., e dall’esame psicodiagnostica, si configura l’esistenza di un Disturbo dell’Adattamento con ansia e umore depresso, di tipo cronico, secondo i criteri del DSM IV. Poiché per definizione tale disturbo non può superare la durata di sei mesi, si assume che la sintomatologia, che si protrae nel tempo ormai da svariati anni, avvenga in risposta ad un fattore cronico del DSM IV per il Disturbo Post-Traumatico da Stress di tipo cronico.
Pur considerando le oggettive difficoltà di valutazione delle alterazioni a carico della sfera psichica, e quindi della quantificazione del danno biologico di tipo psichico, considerato come “ violazione dell’integrità psicofisica della persona” (sentenza C.C.184/869, è ammissibile che gli antecedenti in ambito lavorativo abbiano agito sulla struttura temperamentale della D’A. in misura tale da produrre una sintomatologia di tipo ansioso-depressivo, che ha assunto caratteristiche di cronicità, persistendo lo stimolo negativo dovuto al perdurare anche al momento attuale delle note vicende lavorative e giudiziarie.

L’interferenza del disturbo mentale con il funzionamento globale si può esprimere sulla Scala Globale del Funzionamento (GAF; DSM IV) con il punteggio di 51-60 (sintomi moderati, o moderate difficoltà in ambito sociale, occupazionale, o scolastico). In particolare, l’interferenza sull’adattamento relazionale (GARF; DSM IV), è valutabile con un punteggio di 41/60 (La vita relazionale presenta solo momento occasionali di funzionamento collettivo soddisfacente, e tendono a predominare relazioni chiaramente poco funzionali e insoddisfacenti), e quella sull’adattamento sociale  e lavorativo (SOFAS; DSM IV) con un punteggio di 51-60 (Difficoltà moderate nel funzionamento sociale, lavorativo e scolastico).
La quantificazione del danno biologico di natura psichica permanente può essere stimato tenendo in considerazione diverse tabelle e criteri. Secondo i parametri di Buzzi e Vanini (Ed. Cedam, 2001), la valutazione del danno ingenerato dalle sindromi cliniche diagnosticate
e dalle loro conseguenze sulla vita lavorativa e di relazione della D’A. risultano cadere tra l’1 e il 5%, qualora si consideri la diagnosi di disturbo dell’Adattamento con ansia e umore depresso, di tipo cronico, mentre sono del 21-25% nel caso si consideri la diagnosi di Disturbo post-Traumatico da Stress cronico, di gravità lieve/moderato. Secondo le tabelle di Brontolo e Marigliano, (1996) la quantificazione del danno risulta essere tra il 10 e il 15%.
Il danno si può quindi stimare, tenendo in conto tutti questi valori, in una fascia compresa tra il 15 e il 20%.”
Chiamata a chiarimenti per esaminare certificazioni ulteriori prodotte successivamente ad deposito dell’elaborato peritale, il CTU ha precisato che la persistenza e l’aggravamento del quadro psichico, in associazione con la sintomatologia somatica lamentata e documentata dai certificati relativi a patologia fibromialgica fanno propendere per una valutazione del danno biologico al 25-30%.
Non ravvisandosi validi motivi per disattendere tali conclusioni il giudice fa proprie tali valutazioni essendo la CTU immune da vizi logico-giuridici e ben motivata.

In sede di discussione orale l’Avvocato dello Stato ha criticato la CTU dicendo che andavano fatte maggiori indagini sulla predisposizione della signora D’A. a disturbi di tipo psichico.
Va al riguardo precisato che nei chiarimenti del 25/10/04 la dott.ssa B. dice “ che una parte consistente della varianza osservata nella vulnerabilità al disturbo post-traumatico da Stress è attribuibile a fattori genetici (Vanitallie 2002).
Di tali alterazioni pertanto si tiene necessariamente conto nella quantificazione del danno da disturbo post-traumatico da Stress”.
Anche nella prima relazione peritale l’indagine su una predisposizione della signora D’A. a tali patologie viene fatta dalla dott.ssa B. che parla di tratti ossessivi di personalità ( e non di personalità intesa come disturbo) che sono presenti frequentemente nella popolazione generale e non sono necessariamente da considerarsi patologici. Essi consistono in caratteristiche di perfezionismo, scrupolo per la precisione, accentuata tendenza all’ordine, meticolosità, rigore in campo etico e religioso e così via (cf. Trattato Italiano di Psichiatria). Anche il dott. M. che effettua l’esame psicodiagnostica su incarico del CTU “ non rileva elementi significativi per un disturbo di personalità premorbosa, né dati anamnestici indicativi di un disturbo strutturale preesistente”.

 Nella letteratura in tema di mobbing  vengono riscontrate nell’indole scrupolosa, sensibile ai riconoscimenti e alle critiche e con elevato senso del dovere le caratteristiche caratteriali che agevolano il ruolo di vittima o mobbizzato (V. Harold Ege “Mobbing Conoscerlo per Vincerlo).
Va ricordato tuttavia che dottrina e giurisprudenza recenti tendono a sottovalutare in tali situazioni eventuali concause pregresse (al riguardo la dottrina richiama p. es. Cass. 5/11/99 n. 12339).
 Si osserva infatti che anche se non tutti reagiscono allo stesso modo allo stress e c’è chi ha “anticorpi”  psicologici più forti per affrontare situazioni pesanti protratte, non sembrano esistere predisposizioni caratteriali che rendono immuni al mobbing, poiché è l’integrità dell’intera persona ad essere minata sul piano fisico, psichico, relazionale ed economico.
Da quando fin’ora esposto essendo acclarato il nesso causale tra la patologia di cui è affetta la ricorrente e l’ambiente di lavoro in cui la stessa ha operato, ne consegue che tale malattia va considerata dovuta a causa di servizio. Per quanto riguarda le conseguenze economiche, in mancanza di quantificazione ci dovrà essere un separato giudizio per stabilire l’entità dell’equo indennizzo.

I DANNI DA MOBBING

Le Fonti di responsabilità di parte resistente sono da ricercare, come è stato già detto, da un punto di vista giuridico nel rapporto contrattuale intercorso e quindi nell’art.1375 c.c., secondo cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede; nell’art. 2087 c.c., che pone a carico del datore di
lavoro il divieto di molestie morali nei confronti del lavoratore e nel generale principio del neminem ledere espresso dall’art. 2043 c.c. la cui violazione è fonte di responsabilità aquiliana che trova la sua consacrazione nell’art. 2059 c.c. ora che questa norma, dopo essere rimasta per lungo tempo quasi del tutto inutilizzata, è risorta nella nuova sistemazione dogmatica del danno civile elaborata con il fondamentale contributo delle due sentenze della suprema Corte di Cassazione del maggio 2003 (nn. 8827 e 8828 del 31/5/2003).
Secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata che analogamente alla Cassazione ne ha dato la Corte Costituzionale (Sent. N. 233 dell’11/7/2003), la norma infatti chiarisce la portata del neminem ledere nelle relazioni interpersonali con specifico riferimento alle situazioni normativamente previste e tipizzate, oltre l’aspetto meramente patrimoniale del danno; il risultato non è più quello di un ambito di tutela risarcitoria ristretto al danno morale ( che a questo punto diventa riparabile anche quando non derivi da un fatto penalmente rilevante) ma la possibilità di una tutela piena dei diritti inviolabili della per

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